Pubblicità sessiste, un commento eretico «Il tuo corpo è un campo di battaglia»

Si può mai essere d’accordo – da femministe – con le accuse beffarde di un giornale come Libero, che denuncia il «moralismo bacchettone» di certe iniziative istituzionali contro le immagini sessiste? Per un doloroso e imbarazzante paradosso, dico di sì, e già vedo una quantità di sopraccigli alzati. In un articolo provocatoriamente intitolato Sharia a Catania, il giornale Libero accusa di moralismo integralista («il nuovo Iran»!) la Provincia di Catania, che ha recentemente emesso un’ordinanza repressiva sulle immagini pubblicitarie lesive della “dignità” della donna.

In un certo senso, hanno ragione. I maschioni “liberal” di Libero &co, sessisti, misogini, antiabortisti, omofobi, non fanno che sfruttare strategicamente la mancanza di carica rivoluzionaria e il conservatorismo latente di certe posizioni del femminismo italiano mainstream (lo chiamo femminismo per comodità, sebbene oggi associazioni e donne in politica evitino come la peste il termine “femminista”, ormai tabuizzato in Italia).
Forti critiche a questo tipo di iniziative basate sulla censura provengono, per ragioni ben diverse, anche da posizionamenti culturali antitetici a quelli di Libero, cioè da altri femminismi italiani. In Rete se ne discute da tempo in vari luoghi, da Abbatto i Muri a Un altro genere di comunicazione. Perché di questo si tratta, di censura e repressione, anche se le iniziative si presentano, con tutte le buone intenzioni del mondo, come azioni a favore delle donne e contro il femminicidio.

Certo è positivo che le istituzioni locali si siano accorte del problema del sessismo, come è stato positivo che a livello nazionale si sia aperto, qualche anno fa, un dibattito pubblico sull’immaginario sessista nella tv italiana grazie al documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne. E tuttavia, come osservato da più parti, si sono fatte semplificazioni sospette e si va ora verso pericolose derive normative – se non si vuol dire “moraliste”. Una è quella, come scrive Christian Raimo, di «considerare l’oggettificazione femminile una specie di premessa automatica alla violenza» di genere.

E’ quanto avviene nello specifico caso catanese: l’ex-commissaria straordinaria Antonella Liotta motiva l’ordinanza proprio con un ragionamento simile, condiviso troppo spesso acriticamente da molte donne. Secondo la sua stessa dichiarazione (cito): «I corpi suadenti delle donne (…) stimolano negli uomini sentimenti di possesso che spesso si tramutano in violenza di genere». Causa-effetto. Potrebbe essere. Ma non vi suona vagamente simile all’assunto che se porti la minigonna poi ti violentano? Quindi la soluzione è stare coperte e non essere “suadenti”? In realtà, la cultura sessista in cui siamo immers* è pervasiva.

Tutte, ma proprio tutte, le immagini stereotipate della pubblicità producono sessismo, non solo quelle dei corpi femminili erotizzati. Anche quelli della madre in casa che fa allegramente le pulizie e dell’uomo col macchinone costoso che non deve chiedere mai. Tutti gli stereotipi pubblicitari, non solo quelli erotici, servono a imporre rigide norme di genere e quindi alimentano la cultura sessista e il suo tragico corollario, il femminicidio. Cosa facciamo, censuriamo tutto? Domanda strategica: come mai ci si concentra proprio sul corpo femminile erotizzato da censurare? Mi chiedo, con le parole di Abbatto i Muri: «Dunque saranno criminalizzate le donne che vogliono spogliarsi? Andiamo culturalmente verso il modello abolizionista delle immagini come per la prostituzione? (…) Così vogliamo farla la rivoluzione culturale?».

In alcuni paesi del mondo c’è una censura fortissima, le donne sono coperte da capo a piedi; non solo ogni forma di pornografia è vietata, ma non esistono cartelloni pubblicitari con corpi esposti: c’è forse meno violenza di genere? Stanno meglio le donne? In quanto meno svestite, anzi per nulla svestite, sono forse meno oppresse e meno ammazzate? Non ho i dati statistici e potrei sbagliarmi, ma non credo sia così. Mi appello alle femministe storiche, di cui ho grande stima: non mi pare che la censura abbia mai aiutato le donne in passato. Anzi.

«Your body is a battleground»: il corpo delle donne è un campo di battaglia. E con la censura sui corpi femminili, anche a fini apparentemente “buoni” (contro il femminicidio, per es.), non si fa che perpetuare questo stato di cose. Alla nozione di corpo (femminile) sobrio, che fa sesso solo se accompagnato da romantica affettività, è collegata l’ambigua espressione «dignità della donna», citata anch’essa nel provvedimento della Provincia di Catania. E chi decide cosa è “dignità” delle donne e cosa non lo è, nella sfera erotico-sessuale? Ci sono donne, ad esempio, che trovano molto interessanti le produzioni culturali della pornografia femminista e del postporno. Altre pensano che quelle immagini che io trovo potenzialmente rivoluzionarie siano al contrario lesive della “dignità della “donna”.

Per tornare alla pubblicità: gruppi di donne, oppure un’istituzione, come in questo caso, mi impongono la loro morale unica. Certo – maledizione! – che vedo il sessismo schifoso di quelle pubblicità, ma imporre censure al linguaggio visivo va in direzione dell’assunto per cui i corpi femminili debbano essere coperti e questo è un ragionamento non solo perdente, ma controproducente. Fa apparire il discorso di denuncia antisessista/femminista come un discorso puritano di bacchettone scandalizzate dal sesso. E’ molto più interessante ed efficace, per esempio, ciò che fa il gruppo di giovani donne Mujeres Libres di Bologna, cioè delle azioni dimostrative-sovversive, come attaccare adesivi sopra i cartelloni pubblicitari della città. Oppure produrre immagini con corpi “anomali”, non-magri, non-perfetti, non-depilati, fuori dalla norma estetica che ci è continuamente imposta. Anziché censura istituzionale, questa è reazione, resistenza di donne che prendono la parola e agiscono, si autorappresentano. Nel loro sito forniscono anche i modelli per gli adesivi, da diffondere. Magari ci fossero gruppi di ragazze e ragazzi tanto organizzate anche a Catania…

Stefania Arcara, coordinatrice del progetto GenderLab, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di Catania

[Foto di Mujeres Libres]


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