Acireale, Garozzo parla del depuratore «Ero fan di Pantano D’Arci, ora delle piante»

«Io non sono un tecnico, per certe cose non ho le competenze. Ma quando è arrivata la proposta di non fare il depuratore ad Acireale e usare quello di Pantano D’Arci, a Catania, ero contentissimo. Potevo mai dire di no? Sono diventato un fan di Pantano D’Arci, a prescindere dalla fattibilità del progetto, adesso che non sono candidato ve lo posso dire. Abbiamo fatto i progetti, li abbiamo presentati e, giustamente, sia a Catania sia alla Regione ci hanno presi a sassate. Sassate!». Nino Garozzo, sindaco di Acireale fino al 24 maggio – data delle elezioni comunali – parla col tono tranquillo di chi «ormai» non è più coinvolto. «Ho fatto il mio da amministratore, ma le nostre proposte sono state rifiutate: adesso seguo questa storia delle piante, con interesse e curiosità, da semplice cittadino». L’ammiccamento è evidente, il riferimento è ai cittadini del MoVimento 5 stelle e alla loro rappresentante all’Ars, l’acese Angela Foti, che da mesi punta l’attenzione sul depuratore consortile di Acireale.

La storia è vecchia di trent’anni e riguarda la realizzazione di un mega-impianto di depurazione delle acque reflue dei comuni di Acireale, Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci Sant’Antonio, San Giovanni La Punta, San Gregorio di Catania, Santa Venerina, Trecastagni, Valverde, Viagrande e Zafferana Etnea. Un totale che supera i 160mila abitanti e un finanziamento del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di oltre 133milioni di euro. Ma il progetto non c’è: prima perché l’area individuata per la costruzione si trovava esattamente a metà tra due siti di interesse comunitario (la riserva naturale orientata della Timpa e l’area marina protetta Isole dei Ciclopi), poi perché quella stessa zona è diventata parte del parco archeologico Valle delle Aci. Infine perché la possibilità di appoggiarsi al sistema depurativo di Pantano D’Arci, nel Catanese, è stata bocciata sia dall’amministrazione etnea, sia da Palazzo D’Orleans. L’Europa, però, mette scadenze e non apprezza i ritardi: le sanzioni comunitarie alle quali l’Italia va incontro se non darà una svolta alla questione entro il 30 giugno si aggirano intorno ai 300mila euro al giorno.

«Fermo restando che dovremo chiedere comunque una proroga, io propongo una soluzione sostenibile». A parlare è Giuseppe Luigi Cirelli, ingegnere, che il mese scorso è stato sentito dalla commissione Ambiente e territorio dell’Assemblea regionale siciliana per parlare della fitodepurazione: «È una tecnologia a basso costo e con un impatto ambientale irrisorio». Consiste nel far passare le acque nere in vasche di depurazione, piene di piante «idrofile, cioè con le radici sempre immerse». La flora si nutrirebbe delle sostanze contenute nell’acqua e la restituirebbe depurata. «Si tratta di riprodurre, in maniera artificiale, un processo che già avviene in natura». Il lato negativo di questo sistema è la necessità di spazio: «Per depurare le acque di un singolo cittadino servono tra i quattro e i cinque metri quadrati di piante». Moltiplicati per i 160mila abitanti degli undici comuni del consorzio di Acireale, sarebbero troppi ettari. «Ma se si facesse una fase di depurazione normale, con un impianto di tipo industriale, e poi si passasse alla fitodepurazione i metri quadrati necessari per abitante passano da cinque a uno», conclude l’ingegnere.

«La proposta è la seguente – sintetizza Vera Greco, architetto ed ex soprintendente ai Beni culturali della provincia etnea, che ha sposato la causa di Cirelli e dei deputati pentastellati – Abbandonare l’idea del depuratore consortile e accettare di farne tanti, ma più piccoli». Alcuni Comuni, per esempio Trecastagni, scaricano il 30 per cento delle loro acque nere nel sistema fognario di Catania: «Quelli potrebbero essere affidati al cento per cento a Pantano D’Arci, senza la necessità di creare nuove tubazioni e modificare gli impianti esistenti». Altri Comuni ancora potrebbero farsi i loro piccoli depuratori con fitodepuratori annessi, sfruttando la naturale pendenza del territorio. Infine, «scorporate tutte le altre realtà, rimarrebbero circa 50mila abitanti effettivi di Acireale, per i quali basterebbero cinque ettari di piante. In più: i laghetti che si creerebbero potrebbero stare tranquillamente nell’area archeologica, perché non hanno impatto ambientale». Le acque depurate, secondo questa idea, sarebbero riversate nel torrente Platani. Lo stesso corso d’acqua che in occasioni di piogge di grande intensità esonda, talvolta con esiti tragici. «Il letto di quel fiume è stato cementificato e la sua struttura è stata cambiata – spiega Greco – Questo l’ha reso pericolosissimo». «Se ri-naturalizziamo il fiume, se ripristiniamo il suo letto e il suo percorso originari, allora la pericolosità diminuisce notevolmente e i problemi si risolvono», conclude l’architetto.


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Si chiama fitodepurazione e prevede l'uso di flora idrofila per ripulire le acque reflue dei centri abitati. «È una tecnologia a basso costo e con un impatto ambientale irrisorio», dichiara l'ingegnere Giuseppe Cirelli, sentito dalla commissione Ambiente dell'Assemblea regionale siciliana e grande sostenitore di questo sistema. Che andrebbe affiancato a un impianto industriale più piccolo di quello originariamente previsto. E che convince sia il M5s che l'ormai ex sindaco

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