Come garantire un’informazione obiettiva?

L’altro giorno ho avuto un piccolo assaggio di democrazia diretta, e devo dire che è stato un discreto shock. Noi giornalisti siamo abituati a rivolgerci ai lettori come se parlassimo da un grande balcone con un potente altoparlante. L’ultima cosa che ci aspettiamo – o che vogliamo – è che la folla sotto di noi cominci a risponderci.

 

Se lo facesse, potremmo essere costretti a modificare il nostro punto di vista o l’argomento scelto, un rischio che pochi sono disposti ad affrontare.

Questo è particolarmente vero quando i mormorii di malcontento che vengono da sotto il balcone riguardano il contenuto e la natura dei nostri giornali. Una delle situazioni più involontariamente esilaranti che si verificano in qualsiasi giornale è quando una società di ricerche di mercato presenta i suoi risultati alla direzione.

Scoprendo che le nostre ipotesi e i nostri pregiudizi sui gusti dei lettori non corrispondono alla realtà, all’inizio siamo sorpresi, poi seccati e alla fine sdegnati – per il metodo di ricerca, per il campione scelto o semplicemente per non aver ottenuto risultati diversi. La nostra resistenza al cambiamento non stonerebbe in una giunta militare golpista.

 

Immaginate quindi il mio orrore quando ho scoperto che l’intervento che dovevo fare a Torino non era il solito monologo di quaranta minuti, e che il pubblico avrebbe avuto la possibilità di dirmi quello che pensava. E poi un pubblico di giovani! Che poi avrebbe votato! Il solo pensiero mi terrorizzava.

L’evento di cui sto parlando è la manifestazione Young words che si è svolta a Torino in preparazione delle Olimpiadi invernali. Circa 1.200 persone dai 18 ai 35 anni, provenienti da tutto il mondo, si sono riunite in uno dei pochi Electronic-town meeting che si siano mai tenuti in Europa.

Ecco come funzionava: c’era una grande tenda con centinaia di tavoli, a cui erano sedute una decina di persone.

 

I problemi relativi a ogni argomento – l’integrazione culturale, l’informazione, la povertà – erano stati elencati su fogli che erano circolati prima dell’incontro e ogni esperto della materia dava il via al dibattito con un breve discorso. Poi i gruppi avevano 50 minuti per discutere e mandare i propri commenti ai computer centrali attraverso un portatile.

L’esperto doveva leggere il maggior numero di commenti possibile, formulare tre domande che scaturivano da quanto letto e rimandarle ai gruppi per arrivare a una votazione finale. Io ero l’esperto d’informazione. Non vi annoierò con il mio discorso e passerò subito alle domande e alla votazione, perché questo è il punto principale.

 

I giovani non si sono lamentati del fatto che i giornali non parlano abbastanza di musica e di calcio (anzi, al contrario), ma degli articoli spesso superficiali e pieni di pregiudizi, della difficoltà di accesso all’informazione (soprattutto nei paesi in cui internet è meno diffusa) e di quello che potremmo chiamare lo sfasamento, in una democrazia, tra un sistema d’informazione aggressivo e conformista e i cittadini. La mia prima domanda è stata: come possiamo garantire un’informazione obiettiva?

Quasi il 35 per cento dei presenti ha risposto che la soluzione migliore è insegnare ai cittadini a diventare consumatori d’informazione più critici, e il 19 per cento ha chiesto maggiori controlli sulle concentrazioni di proprietà. La mia seconda domanda è stata se in una società libera ogni adulto ha il dovere di trovarsi le informazioni da solo invece di affidarsi ai mezzi di comunicazione ufficiali.

 

Più del 76 per cento si è dichiarato d’accordo. La terza riguardava gli argomenti su cui i mass media dovrebbero coinvolgere di più i cittadini. Gli ultimi in classifica sono risultati i temi dell’ambiente, poi venivano gli stili di vita e le storie di sesso, con rispettivamente il 14 e il 17 per cento. Ma la maggioranza, circa il 60 per cento, voleva “più articoli che mettessero in discussione l’ortodossia dominante”.

 

Da questa manifestazione ho imparato tre cose. Primo, che è assurdo pensare di poter prevedere ciò che pensano i giovani. Secondo, che una dose di questo tipo di democrazia dovrebbe essere assunta regolarmente come una medicina da tutti i direttori di giornali. E, terzo, che questo sistema di discussione elettronica nel quadro di un incontro cittadino ha molto da offrire.

 
Se viene dato il tempo sufficiente, permette a una comunità di ragionare sui problemi, lanciare idee, perfezionare scelte, prendere decisioni, e forse risolvere conflitti. Evita l’atmosfera da fossa dei leoni degli incontri pubblici tradizionali. Non può essere monopolizzato da chi parla meglio o strilla più forte. Non c’è un giornalista, un esperto o un demagogo che arringa il pubblico da dietro una balaustra, ma tutti hanno un balcone da cui parlare.

Soprattutto, dà a tutti la sensazione di contare qualcosa. I giovani vogliono questo nella loro vita, e anche nei loro mezzi d’informazione. Giornalisti e direttori ne prendano nota.


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