American graffitari: è davvero arte?

Durante la sua vita fu considerato da molti critici d’arte solo un bambino ribelle imbratta-muri. Ed in effetti nel sottosuolo, sui muri e sui pannelli pubblicitari di una delle metropolitane più grandi al mondo – quella di New York – più o meno questo lui faceva. Chissà allora perché i suoi lavori adesso sono arrivati ad essere ben quotati tra i mercanti d’arte. Di chi stiamo parlando? Ma di Keith Haring, ragazzotto nato in Pennsylvania nel 1958, affetto dalla sindrome di Peter Pan, che mai ha raggiunse l’età matura, anche a causa della sua precoce scomparsa a soli 31 anni nel 1990. La morte forse un po’ se l’è cercata, sperimentatore di ogni genere di sessualità com’era nella Metropoli che l’adottò. Ma il successo artistico… quello venne da sè.

Le sue opere, comico-grottesca mescolanza di coloratissimi fumetti, gocciolanti pennellate alla Pollock, segni tribali, geroglifici, culture tribali africane, asiatiche e sudafricane, civiltà aliene e fallocrazie, non possono essere solo il frutto della sua improvvisazione; appassionato sin da piccolo al disegno, Keith frequentò la Ivy School of Professional Art a Pittsburgh, una scuola d’arte dove avrebbe appreso le tecniche di grafica, ma dopo appena due semestri mollò tutto per recarsi in quel di New York che sarebbe stata nel contempo sua mortale cripta e sua immortale gloria. Nella City trovò un’atmosfera e delle compagnie a lui congeniali che gli permisero di esprimere al meglio il suo concetto di arte in luoghi prima di allora impensabili per un artista: vecchie scuole da ballo, metropolitana, clubs e perfino per le strade. Come studente della School of Visual Arts di NY, Haring sperimentò nell’esecuzione effetti video, sculture-installationi and collage di stili e materiali.

Haring cercò e trovò un canale privilegiato per rivolgersi ad un audience più ampia di quella di una mostra o di un museo: i pannelli pubblicitari rimasti vuoti giù nella Metro che venivano coperti da fogli neri, su cui il nostro beniamino disegnava armato di gesso bianco e fantasia. La subway newyorkese diventò così il suo atelier, il suo laboratorio dove sviluppare nuove idee e rappresentarle tramite semplici e disarmati linee. Insieme all’amico Basquiat forgerà una nuova forma d’arte che ha una ragion d’esistere solo nell’oscurità del sottosuolo o sui treni in fuga sui binari. Un’arte draculesca che riportata sotto la luce dei riflettori delle gallerie e dei musei, muore, si dissolve. Le tentazioni del denaro, però, afferrano anche lui e presto diventerà il pupillo di casa Shafrazi, collezionista d’arte iraniano che, per intenderci, al Moma di New York aveva scritto con una bomboletta spray “Kill all lies” sul Guernica di Picasso per protestare contro l’assoluzione dei marines americani che avevano massacrato i vietnamiti di un piccolo villaggio. Chi meglio di Shafrazi avrebbe potuto capire ed apprezzare il messaggio di Keith?

Diagnosticatogli il virus dell’AIDS, Keith fonda la Keith Haring Foundation con lo scopo di donare denaro e disegni ad organizzazioni benefiche contro l’AIDS e lui stesso girovagò per le scuole degli States per sensibilizzare la popolazione studentesca al Safe sex. Una redenzione da sè stesso, forse. Voleva perdonarsi, probabilmente. A quindici anni dalla sua morte, la Triennale di Milano, dopo il successo dell’Andy Warhol Show, presenta adesso il Keith Haring Show, che rimarrà aperto al pubblico fino al 29 gennaio 2006.
[per informazioni sul Keith Haring Show clicca qui]

Di Keith Haring sembra già esserci un erede. Si tratta di Revs, fino a poco tempo fa incubo della polizia di New York. Le sue grandi e coloratissime scritte apparivano nei luoghi più impensati: muri, tetti, viadotti. Arrestato e poi fuggito in Alaska, il writer è tornato con un nuovo originalissimo stile. Abbandonate le bombolette, ora si dedica a scritte e disegni su leghe metalliche che installa – a volte legalmente, altre volte senza autorizzazione – su alcuni palazzi di Brooklyn. Come faccia a collocare di notte queste pesantissime sculture metalliche rimane un mistero.

Ma si tratta davvero di arte quella di cui si è parlato fin’ora? La questione principale, la domanda delle domande, la diatriba sempre aperta è sempre la stessa: cos’è un opera d’arte? Cosa le fa acquisire tale statuto? E’ forse qualcosa di gradevole agli occhi? C’entra l’intento con cui è stata realizzata? E’ il messaggio che veicola ciò che la eleva ad Arte? O forse basta avere un’idea prima di tutti e metterla giù?

Io concludo così. A voi lettori la parola. Ma prima vi invito ad osservare bene alcune delle opere di Keith Haring, quelle di Revs e altri graffiti di casa nostra che si trovano sui muri dello Stadio Massimino di Catania e sulle mura di cinta del carcere di Piazza Lanza.

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