Lavoro, sieropositività e transessualità «Ancora troppi pregiudizi e poche leggi»

Trovare lavoro è un’impresa in alcuni casi, soprattutto in considerazione del periodo di recessione economica come quello che si sta vivendo negli ultimi anni. E trovarlo è ancora più difficile per chi fa parte della comunità Lgbt e, più nello specifico, per chi all’interno di questa comunità si trova in uno status ancora più di nicchia. È il caso dei sieropositivi, sempre più numerosi nel mondo Lgbt, al contrario di quanto invece accade al mondo degli eterosessuali. «Secondo i dati del centro operativo per l’aids del ministero della Sanità – spiega il presidente nazionale di Plus Onlus, rete persone lgbt sieropositive, Sandro Mattioli – negli ultimi due anni le nuove diagnosi dimostrano un aumento del 18 per cento di sieropositivi tra gay, lesbiche e trans, mentre c’è una diminuzione nelle altre categorie».

Il virus è più diffuso tra i gay «per almeno tre motivazioni»,  afferma Mattioli. Una è la vulnerabilità biologica legata alla pratica sessuale anale, «in quanto le mucose di questa zona sono più recettive », spiega. La seconda è di ordine sociale, «è legata alla vastità di relazioni e incontri occasionali, oltre il 50 per cento di quali avviene tramite il web, mentre in terzo luogo bisogna parlare di un problema strutturale», aggiunge Sandro Mattioli.

«Fino a quando ci saranno la  criminalizzazione del contagio e lo stigma della sieropositività, cosa che accade anche all’interno del mondo Lgbt, molti non faranno il test. Troppo spesso si arriva a diagnosi tardive», dice. Ciò che è importante è parlarne e fare comunità, secondo il presidente di Plus onlus che coglie l’occasione della settimana del Pride per presentare l’opuscolo Sesso gay positivo. «Con un linguaggio diretto e popolare facciamo capire che tutto è possibile, che fare sesso con una persona sieropositiva non è qualcosa di cui avere paura», dichiara.

Ma la ricerca del lavoro è un problema anche per altri membri della comunità Lgbt: i transessuali. Diversi sono i pregiudizi che accompaganno la categoria, primo tra tutti quello che identifica il transessuale con la prostituta. «La maggior parte, invece, è gente normale come tutti noi», sostiene Egon, attivista transessuale. Ma non solo. «Qualcuno è semplicemente razzista», afferma Nicole. «Altre volte la colpa è nostra che siamo troppo esibizioniste, marcando gli stereopiti che ci accompagnano», aggiunge Roberta. «Ma in generale non c’è lavoro per nessuno. La mia transessualità non mi ha creato problemi in questo senso», continua Nicole.

Poi c’è il problema della divergenza tra il sesso sul documento e l’aspetto fisico. Ma ciò che davvero manca, secondo l’attivista Michela, «è un impegno da parte dello Stato e delle associazioni che spesso si limitano a tamponare le carenze del sistema sanitario». L’ultima legge di riferimento è del 1982 e «permette di cambiare sesso sul documento previa autorizzazione di un giudice, se è avvenuta una modifica dei caratteri sessuali. -spiega Michela – ma non specifica se si tratta di caratteri primari, ovvero genitali o secondari cioè in riferimento all’aspetto e quindi tutto è nelle mani del giudice».

«Una legge ottenuta dopo tante lotte e dopo la quale mi sono  sposata», ricorda Pina Bonanno, storica transessuale che ha fondato il Mit, movimento italiano transessuali, negli anni ’80. «Ma che va modificata al più presto», continua Michela. «La nuova proposta va verso l’autoderminazione, perché è assurdo che debba essere un giudice e non tu a decidere se puoi mettere il sesso che ti rappresenta sul documento», concludeEgon.


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