Processo Noce, il commento alla perizia «Paura che gli assassini siano come noi»

In questi giorni si sta celebrando a Catania il processo di Appello per l’omicidio di una ragazza e del suo nonno accorso a tentare di salvarla. Non entro, per ovvi motivi, nel merito di questa tristissima vicenda. Però, a margine di questo fatto che – da padre – mi fa star male, alcune considerazioni le devo fare. Da avvocato, sia pur peones. Non entro nel merito della scelta dei periti, anche se non nutro grande simpatia per quelli famosi, magari non per le loro pubblicazioni, ma per essere assidui frequentatori della stanza dei plastici di Bruno Vespa. Aggiungo che non nutro grande considerazione per uno psichiatra con idee del secolo scorso. Come, per esempio, che l’omosessualità sia una malattia mentale.

Tralascio ancora che in certi casi l’opinabilità di un giudizio è evidente ma non sempre evidenziabile. Questi periti sono stati chiamati a verificare la capacità mentale dell’imputato, l’ex ragazzo della studentessa. Da persona che bazzica le aule giudiziarie, posso dire che ormai non c’è processo, per questo tipo di reati, in cui non venga chiamato almeno un perito (spesso due) per verificare se l’imputato sia pazzo o meno. Spesso, come in questo caso, quando il processo si è svolto con le forme del rito abbreviato. Ovvero quando l’imputato (e il suo avvocato) ha scelto di essere giudicato con gli atti che esistevano nel fascicolo. In questi casi, cozza un po’ con le norme del codice rifare un pezzo di processo.

L’Appello, specie in abbreviato, è una discussione sulla sentenza di primo grado. Rifare qualcosa, per esempio una perizia, è un’eccezione che ormai è diventata norma. Questo tipo di perizie sono ormai una costante. Se uno ammazza la moglie o la fidanzata il dubbio che sia pazzo nasce. Ma perché lo stesso dubbio mai nascerebbe, e infatti mai è nato, quando un mafioso scioglie un bambino nell’acido?

Questa è una bella domanda, e forse la riposta può non piacere. Perché forse, quando si giudica il mafioso, quello ci appare come lontano. Il mafioso non ci intimorisce. Perché noi non siamo mafiosi. Forse è paura. Paura di essere come l’uomo che non vuole accettare la separazione e ammazza la moglie. Paura che gli assassini siano come noi, e quindi noi come loro. E allora arriva il luminare di Porta a porta e ci illumina: no, lui è un pazzo, lui è un diverso. Tranquilli, tutti voi non siete come lui.

Le coscienze, forse, così sono a posto. Ma la giustizia… La giustizia della memoria di chi non c’è più è un’altra cosa.


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