Laghetto al teatro romano, parla il geologo «Uno studio? In realtà si tratta di pozzi»

Anziché un laghetto naturale – che tanto affascina i turisti -, tre pozzi artificiali. Dentro il teatro romano di Catania. Sembrerebbe essere questa la sostanza del progetto del Parco archeologico etneo, raccontato da CTzen la scorsa settimana e smentito dalla dirigente del costituendo ente, Maria Grazia Branciforti, e dal Comune di Catania che parlano non di lavori per drenare l’acqua che si accumula dentro l’orchestra ma di studi «della morfologia del terreno sottostante e dell’andamento delle falde acquifere». Dichiarazioni contraddette dalla consulenza richiesta dall’associazione Stelle e Ambiente, tra le realtà cittadine che si sono interessate alla vicenda. «Ci siamo rivolti a un geologo, un professionista a noi vicino, per farci spiegare – dice il professore Giuseppe Sperlinga, biospeleologo e già direttore di riserva – E ne condividiamo i risultati».

Dalla consulenza emergono diversi punti che contraddicono la tesi ufficiale del Parco, cioè quella di voler praticare tre fori da 20 metri di profondità per 20 centimetri di larghezza – nel progetto in realtà qualcosa in più – per studiare il terreno sottostante, senza voler intaccare il laghetto. «I sondaggi che servono a caratterizzare un terreno hanno in media 101 millimetri di diametro, che si possono ridurre a 80», spiega il geologo. «Da 200 a 400 millimetri (il caso dei fori al teatro antico, ndr) si tratta già di pozzi». Per i quali a calcare la scena della struttura romana dovrebbe essere un macchinario di quattro-cinquemila chili con un relativo ponteggio adatto, «che potrebbero provocare danni», ammette il professionista.

Esclusa quindi la possibilità che si tratti di uno studio, resta un problema: «È impossibile stabilire con certezza dove andrà a finire l’acqua drenata dall’orchestra. Magari a mare o forse in uno scantinato privato poco distante che si sveglierà bagnato». Il tutto ammesso che, dopo l’ingente e pericoloso investimento, l’acqua vada davvero via. «Secondo la carta dell’Etna elaborata dal Cnr nel 1979, sotto quella porzione di teatro romano non ci sono lave che, con le sue fratture, potrebbero far defluire l’acqua». Una situazione confermata anche da altre carte più recenti. Al loro posto si troverebbero invece dei «terreni sedimentari», come della sabbia, «dove l’acqua ci mette dieci o cento volte di più ad essere smaltita». Sotto la sabbia, poi, c’è l’argilla: «Che è come un bicchiere. Da lì l’acqua non va più via», spiega il geologo.

Secondo cui, se davvero lo scopo fosse quello di studiare la falda acquifera, «non avrebbe senso farlo in quel punto, dove l’acqua c’è già». E se invece si volesse indagare la morfologia del terreno, «si potrebbero utilizzare metodi non distruttivi, come geo radar oppure prospezioni elettriche o sismiche, secondo cosa si sta cercando, di che materiale e a che profondità». Tutti punti mai chiariti pubblicamente. In ogni caso, «qualunque studio si potrebbe fare appena fuori dal teatro romano, considerato che il materiale sedimentario si diluisce in modo uniforme in una differenza di territorio notevole». Quello che è sotto l’orchestra, insomma, sarebbe uguale anche poco più in là, ma senza rischiare che trivellazioni e vibrazioni rovinino il monumento.

Questo per quanto riguarda la parte geologica del progetto. Che potrebbe avere anche un risvolto naturalistico, come già denunciato dall’Enpa. «Chiederò al Parco di autorizzarmi a studiare le caratteristiche del laghetto – annuncia Sperlinga – Per capire se ha le peculiarità di un ambiente umido che va salvaguardato».


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