Raffineria di Gela, diretto contro indotto Insieme nelle strade, separati nelle richieste

Se si vuol comprendere la natura della protesta che sta paralizzando la raffineria di Gela da oltre 20 giorni, è ai presidi degli operai in lotta che bisogna andare. Lì viene confermato uno dei peccati originali dello stabilimento voluto da Enrico Mattei. La divisione finora insanabile tra dipendenti Eni e lavoratori dell’indotto. Ossia le ditte, spesso locali ma non solo, capaci di aggiudicarsi gli appalti del cane a sei zampe. Neanche 20 giorni di condivisioni, di blocchi, di polvere e vento e sole sono riusciti a far superare le differenze e valorizzare i punti in comune.

Quelli del diretto sono i privilegiati. Contratto collettivo nazionale, stipendi più alti a parità di mansione, ruoli e compiti dirigenziali. Quelli dell’indotto sono figli di un dio minore. Anzi di tanti dei minori. Ogni azienda infatti applica le condizioni contrattuali che ritiene più opportune. Quelli del diretto, dicono quelli dell’indotto, sono «i fighetti che non hanno mai dovuto lottare per i propri diritti, hanno avuto sempre vita facile». Quelli dell’indotto, dicono quelli del diretto, sono «rozzi manovali che non capiscono il sistema di una gestione di una fabbrica così complessa e pensano solo ai propri interessi».

Anche la cronaca conferma la linea di demarcazione. Il nuovo amministratore delegato Eni Claudio Descalzi, nominato personalmente dal premier Matteo Renzi, ha assicurato la scorsa settimana a Il Sole24ore che «non licenzieremo nessuno dei nostri 970 dipendenti». Senza neanche un accenno alla sorte degli oltre 1500 operai che alle commesse dell’Eni hanno finora guardato con speranza. In un acceso confronto le posizioni da divergenti diventano ostili. «Voi non rischiate niente – urla Nicola, uno dei più attivi dimostranti, ad un collega del diretto – al massimo verrete trasferiti in Mozambico (dove l’Eni nei giorni scorsi ha promosso un piano di investimenti da 40 miliardi di euro ndr). Noi invece ci rimettiamo la pelle». «Ma che dici? – ribatte l’altro – senza di noi nessuno si sarebbe interessato alla vostra sorte, ed invece ecco che anche a Roma si discute della raffineria di Gela».

Più arrabbiati gli operai dell’indotto, più delusi i lavoratori del diretto. Gli uni hanno spesso già usufruito degli ammortizzatori sociali, con aziende in crisi da tempo o chiuse. Gli altri tentano di mantenere il lavoro vicino casa e sentono questa volta di essere anche loro in pericolo. Accanto ad un presidio che blocca l’accesso al ponte che conduce all’ingresso della raffineria, c’è una busta paga ingigantita e appesa. «Sono i soldi che abbiamo ricevuto con la scorsa cassa integrazione – spiega Giuseppe, metalmeccanico della Smim impianti – Guarda: sono la miseria di 171 euro. Non si può andare avanti in questo modo». Per questo motivo martedì 22 luglio alla prefettura di Caltanissetta si è svolto un incontro alla presenza delle parti sociali. «Ero l’unico operaio presente – racconta Franco – Me ne sono andato appena ho visto l’atteggiamento molle dei sindacati e la totale chiusura dell’azienda». I funzionari Inps hanno promesso che verseranno la quota restante entro 15 giorni. «Ed intanto? – chiede ancora Franco – Ci tengono alla corda in attesa che ci impicchiamo».

 

[Foto di Miriam Alè]


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