La Babele del dolore

Babel
Alejandro Gonzalez Inarritu
2006

”Racconto di quei momenti particolari della vita
che ci fanno sentire nudi, scoperti, molto vicini alla follia”

Alejandro Gonzalez Inarritu è un regista eccellente. Lo sono prova i suoi due precedenti film, lo ha testimoniato il recente premio che il cineasta ha vinto a Cannes proprio per la migliore direzione dell’anno in corso, ed anche Babel, appunto targato 2006, partecipa alla celebrazione di un director coi fiocchi che, a quarantatre anni, sembra indirizzato verso una carriera interessantissima. Perché ci produciamo in un lead così ricco d’elogio? Perché il regista messicano ha una qualità rarissima da trovare in giro: dirige le sue pellicole “fisicamente”. La sua presenza dietro la camera è evidente, si sentono i suoi respiri, si possono notare le sue scelte e le sue mosse. Ma soprattutto i suoi film hanno ancora la voglia di sperimentare dove la sperimentazione, oggi, se non fatta con cognizione di causa, finisce per svuotare le pellicole del dovuto sentimento. “Babel” si diceva. La torre di Babele e quella dispersione biblica di lingue e culture del mondo: è questo il punto di partenza dello script di Gullermo Arriaga che, mito in sudamerica per i suoi romanzi, affida ad Inarritu, per la terza volta consecutiva (dopo “Amores Perros” e “21 Grammi”) le sue storie drammatiche.

La struttura di “Babel”, infatti, rimane in scia con quella dei due precedenti episodi della trilogia arriaghiana, e cioè tre storie che si intrecciano in un nodo indissolubile e tragico. Arriaga, questa volta, sostituisce l’incidente stradale con un colpo di fucile disgraziato. Sparo che lega tre luoghi così distanti tra loro – Marocco, Giappone e Stati Uniti (al confine col Messico) – nello stesso dolore. Ecco, il dolore. Il dolore è il centro nevralgico del film perché – in un concetto all’inverso rispetto al titolo – nel dolore si è tutti uguali, non ci sono lingue, non ci sono confini, non c’è alcuna babele. Ma il dolore unisce innanzi tutto.

Sia la coppia americana Richard e Susan (Brad Pitt e Cate Blanchett) che ritorna a “guardarsi negli occhi” durante il terribile ferimento di lei, sia i fratellini marocchini Yussef (Boubker Ait El Caid) e Ahmed (Sid Tarchani) mai così uniti come dopo quel colpo di fucile sfuggitogli di mano, sia Yasujiro e Chieko (Koji Yakujo e Rinko Kikuchi) padre e figlia giapponesi lasciati da soli dal suicidio della madre e moglie, sono tre storie domestiche che vivono l’amore nella difficoltà. In tutto questo a trionfare sono almeno tre aspetti: una splendida fotografia che dà vita propria alle rocce polverose del Marocco, alle luci caotiche di Tokyo ed allo sbalzo geografico del “calexico”; un’intelligenza ed efficacia nei passaggi sequenziali (dalle urla marocchine al “mondo dei sordi” della ragazza giapponese); ma, soprattutto, quella vasta gamma di telecamere (digitali, 8mm) che s’alternano nel racconto del film. Dopo il massimo ricavato dalle prestazioni di Sean Penn, Naomi Watts e Benicio Del Toro nel precedente “21 Grammi”, Inarritu tira fuori anche dai “big” Brad Pitt, Cate Blanchett e Gael Garcia Bernal delle superbe prove nei loro ruoli drammatici.


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