Made in China: la fabbrica della festa globale

C’è un luogo dove Natale, Befana e il nostro Capodanno non hanno senso eppure si ripetono ogni giorno dell’anno, senza tregua. Fuori la temperatura è a meno sette, nella fabbrica una stufetta elettrica è impotente contro il gelo. Una mattina di fine dicembre un centinaio di ragazze con le guance violacee sono sedute attorno a un bancone, afferrano velocemente i sottili fasci di fibre ottiche trasparenti, li intrecciano con nastri di foglie di plastica verde (gli aghi dei pini), li annodano con precisione attorno al fil di ferro che fa il rametto dell’albero. Legando i rami sintetici col nastro adesivo prendono forma gli alberi.

Da questo stabilimento nella zona industriale Xi Zhuang, a sessanta chilometri dal centro di Pechino, sono già partiti nel 2006 quaranta container navali carichi di decorazioni per le feste di fine anno, destinazione Europa e America. Il lavoro non conosce pause tra un Natale e l’altro, le ragazze stanno già riempiendo scatoloni per il dicembre 2007. L’ultima moda in Occidente sono i micro-materiali iridescenti che s’illuminano con pochi watt di corrente e cambiano colore cento volte al minuto. Il 95 per cento degli alberi di Natale sintetici è made in China, così come i personaggi e le luminarie per tutte le altre feste del mondo, dalla Befana italiana al Natale ortodosso russo, dai riti induisti ai matrimoni e funerali americani.

La società Ok Tree Company si trova su Internet, ha il suo catalogo di telemarketing dove sono esposti otto formati di alberi natalizi e poi pupazzi di Santa Klaus, elfi e fate e ogni divinità pagana. Tutto è fabbricato usando materiali sintetici che sono scarti di altri settori della tecnologia cinese. Le fibre ottiche che le ragazze annodano negli aghi di pino artificiali sono un sottoprodotto dei cavi che la Cina sta usando per costruire la nuova autostrada informatica sotto l’Oceano Pacifico, il cablaggio che moltiplicherà per cento la potenza dei collegamenti Internet fra Pechino e gli Stati Uniti.

Queste giovani operaie non lo sanno. Né immaginano a cosa servano gli alberelli, i festoni, i fiori finti, i personaggi colorati che escono dalle loro mani, a migliaia ogni giorno, con la fibra ottica che s’illumina, cambia i colori, diventa fosforescente al buio. Sono oggetti insensati, destinati a mondi lontani, per ubbidire a usanze misteriose. Natale? Capodanno? Epifania? Mi guardano smarrite, fanno scena muta di fronte alle domande, abbozzano timidi sorrisi d’incomprensione.

Il Natale non è una festa cinese salvo che per le minoranze cristiane. Il business del grande commercio da qualche anno sta provando a importare anche qui l’usanza dei regali; come per Halloween e la festa della mamma gli shopping mall copiano le decorazioni occidentali; per ora solo una élite di cinesi ricchi adotta queste mode straniere. Con qualche tensione. In questi giorni imperversa una polemica anti-Natale, dieci studenti dell’università di Pechino hanno scritto una lettera aperta al quotidiano China Dailyper denunciare l’infiltrazione. «Natale è una festa cristiana importata dall’Occidente — scrivono i firmatari — e noi cinesi dovremmo restare fedeli alle tradizioni e festività della nostra cultura. Esortiamo solennemente i nostri connazionali a risvegliarsi dal loro coma ideologico per restituire alla cultura cinese il ruolo dominante».

La polemica interessa solo pochi eletti. La festa nazionalpopolare per il 99 per cento dei cinesi resta il Capodanno lunare, a fine febbraio, che ha iconografie e colori tutti diversi dai nostri. Del resto col loro misero salario le operaie di Ok Tree non avranno il privilegio di celebrare neppure il Capodanno cinese con una vacanza. Cento euro al mese per lavorare almeno sessanta ore a settimana, sabati e domeniche inclusi. Le ragazze indossano maglioni di lana sporchi sotto i grembiuli verdi d’ordinanza; una ha il vezzo di mostrare una collanina sopra la tuta di lavoro; un’altra porta il passamontagna per coprire le orecchie dal freddo.

Fuori dalla finestra appannata s’intravede lo squallore di una periferia industriale disseminata di ciminiere, discariche industriali, qualche campo agricolo abbandonato e pronto per essere invaso da nuove fabbriche. Una latrina all’aperto segna il confine di questa ditta. Nel cortile dello stabilimento le operaie tengono un orticello dove spuntano una dozzina di cavoli congelati e coperti di brina, un passatempo per arrotondare il salario con una razione di verdure. Il fotografo batte i denti mentre ritrae le operaie; loro resistono sorseggiando acqua bollente da un thermos, le dita arrossate non rallentano il balletto sul bancone. Un vecchio mangianastri gracchia canzoni pop americane: l’unico legame con l’atmosfera festiva dell’Occidente sono queste note che invadono lo stanzone, riempiono le ore troppo uguali.

L’apice della stagione sul mercato europeo è già passato da un pezzo ma qui si lavora a pieno ritmo per il Natale ortodosso dei russi che arriva più tardi, e poi per il nostro Natale del 2007: centomila alberi ordinati dai grossisti con dodici mesi di anticipo. Ogni albero viene incellofanato e imballato a mano per la spedizione sui mari. I metodi di produzione restano semiartigianali. In miriadi di fabbriche-botteghe come questa un esercito proletario — per lo più giovani donne, a volte bambine — anima catene di montaggio dove ancora il lavoro è tutto a mano. Attorciglia, lega, incolla, è un’opera di attenzione, cura, manualità, precisione certosina. Le macchine non sono arrivate in questo universo. Milioni di alberi natalizi, tonnellate di corone di fiori sintetici con la scritta Happy New Year, Buon 2007, escono annodati uno per uno da tanti alveari femminili come questo, dove s’intrecciano fili di plastica colorati, seguendo forme progetti e istruzioni presi dai magazine stranieri, copiati su Internet.

Al centro della fabbrica dentro un gabbiotto di vetro c’è l’ufficio del padrone, riscaldato più generosamente. Computer, collegamento Adsl, è un universo virtuale dove convivono tutte le feste del mondo. «Posso assumere più ragazze — dice l’imprenditore Li Xiaoyue —, il mio progetto è eliminare i tempi morti e le basse stagioni, produrre 365 giorni all’anno, 24 ore su 24». Il capo è immerso nel suo piano di espansione sui mercati internazionali, mostra le divinità indù che i clienti di Mumbai hanno cominciato a ordinargli nello stesso materiale che lui usa per Befane e Santa Klaus. Le microlampadine che cambiano colore, le fibre ottiche come capocchie di spillo sono una trovata che i cinesi convertono per tutti gli usi. La decorazione di cui il manager va più orgoglioso ha successo nella South Carolina e nel Texas, nel profondo Sud americano del protestantesimo fondamentalista: è una croce immacolata e splendente per celebrare l’anno nuovo nelle chiese dei “teocon”.

La stessa plastica, gli stessi aghi iridescenti intrecciati dalle mani delle bambine-operaie compongono anche svastiche indù per gli Om-Tree, gli alberi sacri per le case degli immigrati indiani a Londra. Mezzelune islamiche di aghi di pino partono da qui per il mercato dei paesi arabi, Dubai e gli Emirati. Ikebana luminosi sono stati ordinati dai giapponesi. L’Italia riceverà duemila bouquet di orchidee che sembrano fuochi d’artificio: la luce attraversa le venature dei fiori, i petali assumono colori diversi ogni istante, dal celeste al rosa shocking. Sono stati ordinati per cerimonie di nozze, i primi sposi italiani del 2007 avranno i centro-tavola del banchetto di nozze illuminati da questi colori, nati in una spoglia fabbrica cinese.

Babbo Natale e la Befana, Capodanno e Pasqua, l’Islam e Vishnu, tutte le tradizioni e tutte le religioni del mondo, le corone floreali e le piante finte per le divinità del Pantheon di quattro continenti hanno in comune l’odore di cavolo in una periferia di Pechino, le dita rapide e attente delle operaie cinesi.

 

 

[Questo reportage di Federico Rampini è stato pubblicato – col titolo “Pechino.L’officina delle festività altrui” – su LA DOMENICA DI REPUBBLICA di domenica 31 dicembre 2006]

 


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