Viaggio di ritorno

“-Se sei emigrante la prima cosa che ti devi imparare è che nna enùta (una venuta) è solo una enùta, mentre la turnàta è per sempre… – Due termini per indicare la stessa cosa: il ritorno. Ma la differenza è fondamentale. Me l’hanno spiegata con parole semplici ma inequivocabili. Nna enùta, è nna fesseria, il tempo di guardarsi attorno veloci, senza mettere a fuoco i luoghi e le facce, per ripartire subito e dimenticare. La turnàta, invece, è altra cosa… vuol dire che hai raggiunto l’obiettivo, ti sei sistemato, puoi mettere a fuoco, ricordare le facce e i luoghi perché ora stai per tornarci, definitivamente. Nna enùta è nna fesseria, la turnàta è altra cosa! Vuole dire che ti sei sistemato…”

Appartiene alla categoria di spettacolo necessario quello che Mario Perrotta porta in giro per l’Italia e che io ho avuto la fortuna di vedere a Milano in una delle sale dell’Elfo.

Italiani cìncali, scritto ed interpretato dallo stesso Perrotta, racconta dell’emigrazione degli italiani in Belgio e in Svizzera, lo fa in due spettacoli diversi che, pur avendo come ispirazione la cronaca, diventano, almeno il secondo, quello che io ho visto e che si occupa dell’emigrazione in Svizzera, diventano grumi di poesia ed emozione pura.

La voce che ci racconta lo spettacolo ci racconta della storia di una famiglia, nonno, padre, madre e figlio, dei loro cinque anni in svizzera, e del ritorno a casa, il giorno che il nonno muore. Quel giorno sarà per Nino il primo, dopo cinque anni, in cui rivedrà la luce del sole all’aria aperta. Eh già, perchè per gli immigrati, in svizzera non c’è possibilità di vivere con la famiglia e con i figli; ma, ci chiede l’uomo seduto sulla sedia, può un padre vivere senza vedere suo figlio? Il figlio è come un pezzo di te, come un braccio, una mano, un piede, e allora gli stagionali, emigranti dall’Italia, se li portano nascosti i figli, e li chiudono in casa per anni, impedendogli perfino di affacciarsi alla finestra. Ma Nino di tanto in tanto guarda alla finestra, e vede altri bambini, bambini che vanno a scuola e che durante la pausa giocano a rincorrersi. E c’è anche una bambina, che lui non lo sa chi è quella bambina, ma lui si figura che si chiama Agnese, ed è con lei che parla Nino, lei che non può sentirlo nè vederlo.

La turnata racconta del viaggio di ritorno, in macchina c’è anche l’amico di famiglia, comunista, che canta a squarciagola bandiera rossa passando da bologna, e ci sono Marx e Lenin, che giocano in una squadra di calcio, la squadra comunista, che si batte contro quell’altra, quella dei padroni, che vince sempre ed ha dieci punti avanti.

Ma sono storie dentro le storie, il racconto ci trapassa con l’evidenza della sua verità che la finziona del teatro non diminuisce anzi amplifica. E improvvisamente tutte quelle facce prendono corpo, e prendo corpo la voce del nonno che racconta al nipotino che non è vero che sta per morire, ma che, è il 1969, deve andare assieme a quei tre ‘stronauti sulla luna a piantari la bannera italiana insieme a Nello Armstrong e agli altri due, e lo fa non in dialetto stretto, ma in una lingua che viene dal leccese, che è la patria, che è l’identità e la storia.

Il viaggio deve avere inizio, il viaggio di ritorno, perchè non è possibile seppelire il nonno in Svizzera, e il viaggio sarà un viaggio col bambino che riscopre il mondo e il nonno morto che sta lì sulla luna, e Nino ha in mente una foto, un luogo, il luogo della sua terra che è patria, con una distesa di ulivi davanti, carichi di frutti succosi, e una distesa d’acqua di fronte agli ulivi, il mare, due distese infinite come solo nella terra del nonno e di Nino possono esistere

E’ uno spettacolo che forse è qualcosa di più d’uno spettacolo, e forse è anche qualcosa in meno d’uno spettacolo: è un pezzo di vita e di storia d’Italia che si materializza davanti ai nostri occhi e si fa carne e sangue. Ed è questo il miracolo del teatro che ha avuto come profeta uno splendido Mario Perrotta.

Alla fine dello spettacolo si assiste, ancora presi dall’emozione, a venti minuti di video, brani tratti da quattro anni di lavoro, interviste fatte a chi era tornato, e a chi dice che mai oggi accetterebbe di vivere per 30 anni lavorando in miniera, e adesso, adesso che la miniera non c’è più, quella miniera gli manca.

P.S. Oggi pare non ci siano più italiani che nascondo i loro figli per impedire che il civilissimo governo svizzero li rispediscano a casa, insieme ai genitori: oggi sono portoghesi, greci, arabi, turchi, ma sono pur sempre bambini.


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