Da Roma al Cara Mineo, la favola dei migranti «parassiti» Ma l’industria dell’accoglienza produce profitti

La cronaca più recente testimonia come, in questi ultimi giorni, abbia assunto una nuova centralità la cosiddetta retorica dell’abuso che etichetta i cittadini immigrati come parassiti dei paesi riceventi e sfruttatori delle misure di accoglienza umanitaria. Le proteste che si sono verificate nel quartiere Tor Sapienza di Roma contro la presenza di un centro di accoglienza per minori stranieri non accompagnati possono essere comprese fino in fondo solo se si analizzano le dinamiche sociali e politiche che ad esse sottostanno e che alcuni attori istituzionali hanno contribuito ad alimentare con l’avallo dei media mainstream

A poco più di un anno di distanza dai naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, i migranti – che, nel corso dell’operazione umanitaria Mare Nostrum, erano stati raffigurati come vittime da sottrarre alla disumanità delle traversate in mare – sono tornati ad essere i principali capri espiatori ai quali fare ricorso per spiegare le ragioni del degrado urbano, della disoccupazione e delle criminalità. Lo schema narrativo che fa da sfondo a tali rappresentazioni è noto in letteratura: la popolazione locale, già esasperata dalle condizioni di precarietà lavorativa e di povertà materiale, si trova a dover convivere con la presenza di immigrati che desiderano solo trarre profitto dalle risorse economiche e occupazionali dei cittadini di pieno diritto. Secondo una visione largamente condivisa, il risultato che ne deriverebbe è una guerra tra poveri nella quale aggressori e aggrediti sono vittime simmetriche della medesima situazione di disagio.

Ma siamo sicuri che questo schema possa essere applicato con successo per spiegare cosa accade oggi nell’ambito del circuito dell’accoglienza dei migranti? È veramente possibile parlare di una simmetria nel rapporto tra autoctoni e immigrati quando una delle due parti coinvolte nella relazione è rappresentata da persone costrette a vivere all’interno di un limbo giuridico e sociale che li conduce verso una irregolarità forzata?

Il contesto che gravita attorno al Cara di Mineo offre interessanti spunti di riflessione a questo proposito, consentendoci di fare chiarezza tanto sulle logiche di natura economica che sottostanno alla cosiddetta industria dell’accoglienza, quanto sulle trasformazioni sociali e politiche che essa ha concorso ad avviare.

Il Cara di Mineo viene considerato dai gestori il fiore all’occhiello dell’accoglienza italiana. La struttura – che in origine venne concepita come residenza per i marines americani impiegati nella vicina base militare di Sigonella – a partire dal 2011 conobbe una significativa conversione, diventando il principale centro per richiedenti asilo con il quale venne fronteggiata l’emergenza Nord Africa e, con essa, la ripresa della crisi sbarchi nel Mediterraneo dopo alcuni anni di interruzione. Come è noto, questo luogo rientra tra i casi più esemplari della cosiddetta Shock Economy, trattandosi di una impresa a finanziamento statale nata sull’onda della psicosi collettiva che colpì Lampedusa in seguito alla gestione politica degli arrivi dal mare e fondata sulla cosiddetta economia dell’emergenza. Il centro, inizialmente contrastato dalle parti istituzionali e dalla popolazione locale, nel volgere di qualche mese si è trasformato in un vero e proprio punto di riferimento attorno al quale non solo si costruiscono le carriere professionali degli attori politici, ma si decidono anche le sorti di intere famiglie che, in un momento di profonda crisi economica e occupazionale, vedono nel Cara di Mineo una delle poche possibilità di impiego, anche se talvolta precario, malpagato e dequalificato.

Queste prime considerazioni, da sole, bastano a capovolgere la prospettiva dalla quale siamo partiti: non sono i migranti in arrivo dai paesi poveri ad abusare delle risorse che i paesi ricchi mettono loro a disposizione. È semmai il contrario: nel quadro dell’attuale governance italiana dell’immigrazione, i migranti divengono essi stessi risorse che le società riceventi – l’Italia e la Sicilia in testa – utilizzano al fine di massimizzare i benefici economici derivanti dalla loro posizione all’interno del panorama geopolitico

Da questo punto di vista, non deve sorprendere che in tutta l’isola siciliana stiano proliferando centri per l’accoglienza dei cittadini stranieri che, al di là della genuina volontà di inclusione sociale che muove alcuni di essi, rischiano in taluni casi di configurarsi come strutture dalle quali trarre facili profitti economici e politici, con conseguenze pericolose sulla vita degli uomini e delle donne straniere che in esse trovano ospitalità. 

Se dalla gestione interna del Cara di Mineo ci spostiamo al contesto sociale esterno queste considerazioni assumono significato ancora maggiore. La presenza del centro ha agito nel profondo del tessuto produttivo, incidendo in vario modo sull’economia agricola del territorio calatino. Gli abitanti del luogo hanno ben messo in evidenza come esista un rapporto assai contraddittorio tra i coltivatori locali ed i richiedenti asilo. La struttura, collocandosi nel mezzo della distesa di agrumeti che connotano la produzione agricola locale, ha infatti innescato una situazione altamente conflittuale tra le parti interessate. Per un verso, la posizione del Cara ha suscitato numerose proteste da parte dei proprietari terrieri che hanno visto il proprio fondo agricolo deprezzato a causa della vicinanza con la struttura e derubato da alcune razzie dei richiedenti asilo, di passaggio nelle campagne per raggiungere il centro abitato di Mineo (che dal Cara dista ben 11 chilometri). 

Per altro verso, la strategica collocazione del Centro ha attivato un rapporto fecondo con le campagne circostanti, incentivando meccanismi di reclutamento lavorativo dei richiedenti asilo che hanno assunto una portata crescente soprattutto negli ultimi due anni. Come è stato documentato da più parti, si sta consolidando l’abitudine di impiegare gli ospiti del Cara nei campi che circondano la struttura, con paghe che raggiungono livelli ancora più bassi rispetto a quelli che si sono stabilizzati in seguito all’arrivo nel Calatino di lavoratori provenienti dai paesi dell’Est europeo. Al mattino, lo spettacolo che si offre ad un osservatore attento è degno di rilievo: numerose auto e furgoncini posteggiati a breve distanza dall’ingresso principale della struttura attendono che i migranti vi salgano su per poi scomparire nelle campagne circostanti. Il lavoro dei richiedenti asilo è al tempo stesso illegale e irregolare. Gli ospiti del Cara, infatti, sono in possesso di un documento di soggiorno che non consente loro di svolgere alcuna attività lavorativa. Questa condizione li conduce all’interno di un limbo giuridico e sociale che, costringedoli all’irregolarità, finisce con l’alimentare episodi di sfruttamento lavorativo. 

Il risultato si traduce in un anomalo rapporto tra protezione e speculazione dei migranti che rende il Cara di Mineo uno dei luoghi di osservazione privilegiati dai quali interpretare in chiave critica fatti come quelli verificatisi a Tor Sapienza.

*Antonella Elisa Castronovo, giovane laureata in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Palermo, è attualmente dottoranda di ricerca in Storia e Sociologia della Modernità presso l’Università di Pisa e collabora alle attività di indagine del Dipartimento “Culture e Società” della Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale dell’Università di Palermo. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio delle migrazioni nel mercato del lavoro italiano e l’analisi dei processi di rappresentazione politico-mediatica della “vicenda Lampedusa”. Su questi temi ha già pubblicato numerosi saggi in volumi collettanei.

La riflessione che qui proponiamo trae origine da un’indagine, ancora in corso, finalizzata ad analizzare l’impatto che il Cara di Mineo ha avuto sul tessuto produttivo locale e sull’assetto societario. Lo studio si è avvalso di alcune interviste in profondità rivolte a stakeholder e a cittadini migranti residenti nel contesto calatino.


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