Alberto, Achille, Amleto: tutte le facce di Frison Stavolta è il portiere a salvare il Catania

Quando ieri, dopo appena quattro minuti di gioco, il Bologna è passato in vantaggio sul nostro campo, sono stati in tanti, dagli spalti del Massimino, a smoccolare come di consueto contro il portiere Frison. Poco importa che, su quel gol, Frison potesse far poco, dato che è stato battuto con un diagonale perfetto da un avversario, Zuculini, lanciato solo davanti alla porta. Un giocatore arrivato fin lì per colpa di difesa e centrocampo, e non certo del portiere. Il fatto è che, avendo il numero uno rossazzurro mostrato in questi mesi alcuni limiti, siamo ormai portati a rimproverarglieli in ogni occasione, non importa se a proposito o meno. Frison è uno che esce poco dai pali? Ed ecco che la critica degli spalti gli chiede di uscire su tutti i palloni, inclusi quelli sui quali l’uscita sarebbe inutile o dannosa. Frison è uno che perde tempo nei rinvii? Ecco il pubblico che lo fischia a prescindere, senza accorgersi che nello stesso momento, dalla panchina, è proprio Sannino che gli fa cenno di non affrettarsi e guadagnare secondi.

Il torto fondamentale di Frison, comunque, è un altro. È quello di essere sceso dal piedistallo del portiere ideale su cui il pubblico lo aveva collocato un paio d’anni fa, per sporcarsi le mani in una realtà fatta di pregi e difetti, belle parate ed errori, talento e incertezze. È il torto di non poter essere più invocato come salvatore della patria per ogni papera di Andujar. È il torto, insomma, di non essere più un assente, e di non poter godere del comodo privilegio di aver sempre ragione. Privilegio cui ha dovuto rinunciare quando, l’anno scorso, è stato infine preferito, in modo peraltro intermittente, al calamitoso collega argentino.

Lo posso dire, adesso che Frison non è più un’entità astratta composta di pregi ipotetici ma inspiegabilmente collocata in panchina, bensì un portiere che sta in campo, con tutti i suoi difetti reali. Sono dell’idea che se, l’anno scorso, avesse regolarmente giocato lui al posto di Andujar, il Catania si sarebbe salvato. Me lo dicono i numeri: dei cinque soli punti realizzati in trasferta dalla nostra squadra durante l’intera scorsa stagione, quattro portano la firma di Frison: il pareggio esterno contro l’Inter, determinato da una sua decisiva parata su Milito. E la vittoria in dieci contro undici, inutilmente bella, nello scontro diretto di Bologna, in cui il portiere risultò tra i migliori in campo. Sfido chiunque, di contro, a elencarmi le partite dello scorso anno in cui la prestazione di Andujar abbia portato almeno un punto al Catania. E non sto a parlare delle partite perse per demerito del buon Mariano, il cui elenco sarebbe ineguagliabilmente lungo.

E tuttavia, quest’anno, anch’io mi annovero tra quanti si aspettavano di più da Frison. E non solo per l’inevitabile inadeguatezza della realtà di fronte ai voli delle nostre speranze. Ma anche perché ho l’impressione che questo ragazzo, rispetto a quando è arrivato a Catania, abbia perso un po’, dentro di sé, la fiducia nei propri mezzi. È come se Alberto sentisse di continuo la responsabilità di dover dimostrare di saperci fare, dopo aver vissuto per troppo tempo nell’ovatta insidiosa della panchina. Come se avesse smarrito quella spavalderia con cui era arrivato a Catania, quella santa spensieratezza che aveva messo in mostra nelle sue prime partite, e che lo portava ad agire quasi d’istinto, senza star troppo a pensarci, su ogni pallone su quale ci fosse da decidere se lanciarsi o aspettare. Credo insomma che Frison sia arrivato a Catania portando dentro di sé la spontanea incoscienza di un eroe omerico, pronto sempre a buttarsi con coraggio nella mischia senza stare a preoccuparsi delle conseguenze. E che, dopo un anno e passa di meditazione in panchina, si sia trasformato in un fragile eroe romantico, in un Amleto sempre incerto se agire o non agire, di continuo costretto a interrogarsi sull’essere e il non essere.

Ma ecco che ieri, mentre il pubblico di Catania-Bologna rimasticava i suoi malmostosi sussurri contro l’incerto Amleto, all’improvviso Frison è tornato a giocare da Achille. E ha messo a segno almeno tre parate decisive. Una, alla fine del primo tempo, dallo stile magari imperfetto, in cui ha fermato con la faccia l’attaccante avversario Acquafresca, lanciato solo verso la porta. Un’altra difficilissima, in due tempi, su una violenta punizione di Matuzalem, filtrata attraverso una barriera d’una decina di giocatori. Una terza, incredibile, su un tiro in mischia ancora di Acquafresca, che arrivava a fil di palo con uno di quei rimbalzi sporchi che sono in genere una condanna per i portieri. Ma che Frison ha raggiunto lo stesso, allungandosi sulla propria destra in un gesto di perfetta efficacia e di angelica bellezza.

Non c’è troppo da rallegrarsi, secondo me, del pareggio di ieri con il Bologna. Perlomeno se ancora, a dispetto dei limiti evidenti di questa squadra, si vuol prospettare l’idea di un Catania con ambizioni da promozione. Io mi rallegrerei, però, d’aver visto per una volta un nostro portiere uscire dal campo vincitore. Non che sia abbastanza da potersene accontentare. Però, da parecchi anni, non c’ero più abituato.

Che poi questa possa, un giorno, smettere di essere un’eccezione e diventare la regola, non sta a me dirlo. Ma, forse, basterebbe poco. Basterebbe che, in Frison, qualcuno ricominciasse a crederci davvero. Basterebbe che questo qualcuno fosse proprio Frison.


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