Stragi di migranti, Procura chiede tre estradizioni a Egitto Salvi: «Catania non può reggere un altro anno così»

Uno sguardo indietro, all’ultimo anno segnato da «indagini più complesse di quelle sulla mafia», per ripercorrere a ritroso i fili del traffico di migranti, fino ai capi delle organizzazioni di cui oggi finalmente si chiede all’Egitto l’estradizione. Un occhio al futuro, che il procuratore capo di Catania Giovanni Salvi si augura diverso rispetto a quanto vissuto negli ultimi 12 mesi. «Catania non può reggere un altro anno così – lo dice chiaramente Salvi, lanciando un appello all’Europa – Deve esserci un approccio diverso, l’Europa non chiuda gli occhi, non possiamo essere lasciati soli». Monito a cui si accompagna una dura critica all’operazione internazionale Triton, che ha sostituito Mare Nostrum solo relativamente al controllo delle frontiere e potendo contare su risorse finanziarie inferiori di due terzi. «Triton non va incontro alle nostre esigenze, anzi, crea un problema in più agli uffici giudiziari e alla Marina – spiega il magistrato che ha diretto tutte le operazioni più importanti negli ultimi anni contro il traffico di migranti nel canale di Sicilia – Perché se dovesse arrivare una richiesta di soccorso da acque oltre i confini Sar (le zone di competenza per la ricerca e il soccorso in mare ndr), chi dovrebbe intervenire? L’omissione potrebbe anche avere profili di rilevanza penale». Per Salvi si tratta di «problemi giuridici complessi che vanno risolti a livello centrale, e che non possono ricadere sugli uffici giudiziari. Devono spiegare con chiarezza a noi e alla Marina cosa è possibile fare e cosa no». 

Fin qui la proiezione in avanti. Ma la conferenza stampa di stamattina in Procura – a cui hanno partecipato vertici della Marina militare, del Servizio centrale operativo e i dirigenti delle squadre mobili di Catania, Siracusa e Ragusa – è stata l’occasione per annunciare la richiesta di estradizione per tre cittadini egiziani. Uno ritenuto il capo dell’organizzazione che ha portato al naufragio del 10 agosto del 2013 alla playa di Catania, dove morirono sei migranti. Gli altri due sono considerati i i leader di un altro gruppo criminale, che nel settembre del 2014 ha deliberatamente provocato l’affondamento di un’imbarcazione a largo delle coste egiziane, provocando la morte di almeno 250 persone. Solo 11 i superstiti, sparsi tra Sicilia, Grecia e Malta. Una strage causata dallo speronamento volontario da parte di un altro natante il cui equipaggio – spiegano gli investigatori – «ha assistito alla scena rimanendo presente sul posto fino a quando la barca speronata non è colata a picco». 

Sono due le direttrici che gli inquirenti hanno indagato. La prima dal Corno d’Africa porta alla Libia e quindi alle coste meridionali della Sicilia; la seconda – esplosa nei numeri nell’ultimo anno – dalla Siria e dalla Palestina passa attraverso il mar Egeo e arriva nella parte orientale dell’Isola su cui ha giurisdizione la procura distrettuale di Catania. Nel 2014 sono arrivati in Sicilia 116mila 672 migranti (sul totale nazionale di 165mila 636). Circa dieci volte in più rispetto a due anni prima. I grafici mostrano come cambiano le nazionalità di provenienza: se nel 2012 le prime due sono Tunisia (sulla scia della primavera araba) e Somalia, nel 2014 sono Siria ed Eritrea a staccare nettamente tutti gli altri Paesi, rispettivamente con 40mila e 34mila arrivi. «Siriani e palestinesi rappresentano un terzo dei migranti giunti in Sicilia nell’ultimo anno», precisa Salvi.

Negli ultimi tre anni sono stati 191 i rinvii a giudizio e 109 le condanne di primo grado ottenute dalla Procura. «Non volevamo fermarci agli scafisti ma arrivare ai trafficanti, ai vertici delle organizzazioni che risiedono all’estero», precisa il procuratore capo. «Indagini per cui abbiamo usato i tradizionali metodi usati per i reati di mafia ma che sono state persino più complesse delle seconde, vista la loro natura trasnfrontaliera», aggiunge Raffaele Grassi, numero uno del Servizio centrale operativo della polizia di Stato. Tra queste spiccano l’operazione Markeb el Kebir (Nave madre) – partita dopo il naufragio della playa e preceduta da tre importanti sequestri di imbarcazioni, nave madri che l’organizzazione egiziana usava per i suoi traffici – e l’operazione Tokhla, che ha sgominato una rete di trafficanti, i cui vertici erano in Libia, diventata punto di riferimento per tutto il Corno d’Africa. E’ durante questa indagine che la squadra mobile di Catania libera otto minorenni tenuti prigionieri in un sottotetto del quartiere San Berillo

La vicenda più tragica è forse quella dello speronamento a largo dell’Egitto. «Anche noi – racconta Salvi – all’inizio abbiamo faticato a credere alla versione data dagli unici due superstiti che sono arrivati a Pozzallo. Poi confermata anche dai pochi altri sopravvissuti finiti in Grecia e a Malta». Tutto inizia il 6 settembre quando un’imbarcazione parte dall’Egitto con a bordo tra le 300 e le 500 persone. Nei successivi tre giorni, rimanendo in acque egiziane, lance più piccole le si affiancano per far salire altri migranti, soprattutto siriani e palestinesi. Fino a quando, il 9 settembre, la stessa organizzazione invia un peschereccio che traina una barca più piccola dove trasferire tutti i migranti raccolti. Un natante di dimensioni troppo ridotte, al punto da provocare la protesta dell’equipaggio della prima imbarcazione e degli stessi malcapitati pronti al viaggio. Per tutta risposta e con un’impietosa premeditazione il peschereccio sperona la barca e assiste all’inabissamento. Ancora oggi non si sa con certezza quanti cadaveri giacciono in fondo al mare. Si salvano solo in 11, ripescati da diversi mercantili. I due palestinesi di Gaza che raggiungono Pozzallo sopravvivono per miracolo dopo due giorni in acqua. Inizia da lì la paziente ricostruzione degli investigatori, che si è avvalsa anche delle mappe di Google, di intercettazioni, di un sommergibile e di aerei. 

Tuttavia, mentre la giustizia fa il suo corso, i trafficanti cambiano modalità di azione. «Si stanno riorganizzando – spiega Salvi – adesso usano grandi mercantili che battono bandiera di uno Stato straniero. Così per noi è più difficile intervenire, perché dobbiamo prima chiedere l’autorizzazione a quel Paese. Per questo – conclude – abbiamo bisogno di tutto il supporto dell’Europa». 


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