300

C’è che da piccolo ti facevano sognare con l’Epica: uomini simili a dei, dei simili a uomini, l’Iliade, l’Odissea, miti leggende e vecchia storia antica. L’ Eneide no: quel pio non ti ha mai convinto del tutto: con gli amici giocavi alla battaglia e non trovavi nessun Anchise da portare sulle spalle.

C’è che, a Storia, ti hanno insegnato, fra le altre cose, a boicottare quei fanatici degli Spartani ed a parteggiare per quegli intellettuali degli Ateniesi, mentre sottobanco ammiravi il fiero cipiglio dei primi e sfottevi i sofismi dei secondi.

C’è che non ne puoi più, oggi, dei messaggi di film seriosi, carichi di spocchia intellettualoide. Per intenderci: di quelli che non ti perdonano se non ti sei strappato le vesti in loro onore, facendoti assalire da illeciti sensi di colpa.

C’è che vuoi proprio rinfrescarti gli occhi, azzerare sinapsi, rifocillare trippa saziare viscere e rallegrare carne. Che è triste di suo pure senza aver letto tutti i libri.

Non so a voi, ma a me tanto basta per andare al cinema: ho visto 300. E mi è piaciuto.

Provo a spiegarmi: se avete mai provato quella follia della montagne russe, capirete di cosa parlo. Vieni lanciato ad una velocità da rimescolamento degli organi interni per poi fermarti un attimo in cima. Ecco, se magari non hai vomitato l’anima- versione per chi crede- o tutto il cibo della giornata – versione per pagani – proprio lassù ti guardi intorno e ti godi un panorama che magari non t’aspettavi. E via poi per la discesa. Altro giro, please. Ho lo stomaco forte: io, con 300, in cima mi sono guardato intorno. Non che durante la prima salita non sia stato schiaffeggiato da quintali di retorica, da esagerazioni che quasi ti sfiancano, da distorsioni della realtà che un poco ti inquietano.

Ma è come chiedere giù al macchinista delle giostre di rallentare quella trappola su cui sei seduto: non puoi mica, al massimo lo maledici e continui. Sembra strano, ma serve,  ribadire che 300 è solo un film. A cinture allacciate, ti godi quei quadri viventi, in perenne color seppia e toni scuri da noir alla Sin City, che sfoggiano un rosso da battaglia e utilizzano le scale di grigi e ciano per i dialoghi. Ti viene da dire che tutto è colossale maestoso e solenne, compresi Leonida e tutti gli spartani ipertrofici dal testosterone sbattuto in faccia, persino il consigliere. E dove non poterono natura e palestra ecco intervenire l’elettronica: allungàti con scialo di pixel, inquadrati sempre dal basso verso l’alto, poco ci manca che non minaccino pure te in platea. E se cerchi realismo in un fumetto o in fiaba violenta, chè questo è 300, hai sbagliato sala.

Ma in fondo tanto kitsch è inoffensivo, tutto è talmente esagerato da risolversi in un’ironia salvifica. Magari solo uno spruzzo, quella che basta, insieme agli ettolitri di sangue a pioggia che bagnano lo schermo: Una pioggia di frecce oscurerà il sole? Combatteremo all’ombra! Ridono pure loro, gli spartani, e a te un mezzo ghigno ti scappa.

Al secondo giro ti blocchi su Leonida e Gorgo, sua moglie, e per una volta non ti senti un voyeur: una scena d’amore coniugale finalmente, di quell’amore che est dans le toucher, diceva Buffon . Ed hai la sensazione che avesse proprio ragione: non c’è nessuna tresca, nessun  fidanzatino immaturo o attempato, fantasma geloso, postino fin troppo ligio al dovere, amante burroso a Parigi, femme fatale o maschietto usa e getta. C’è un marito che parte per una battaglia suicida e c’è una moglie che lo sa: e non c’ è amore senza il toucher dei corpi.

Per inciso: Gorgo è una donna – e che donna – che pretende e merita rispetto, che non esita ad usare peplo e spada (in ordine cronologico e forse d’importanza), che del marito s’aspetta il ritorno o con questo scudo o su questo scudo. Che dà il proprio assenso alla muta richiesta di Leonida: certo magari non ci fanno una gran bella figura ad uccidere gli ambasciatori di Serse, però è roba che farebbe morire d’invidia quella sciacquetta di Elena di Troia.

Terzo giro, ultima rampa: ed è giusto che il posto d’onore spetti alla battaglia. La cima la raggiungi in un posto strano, e quasi non te ne accorgi, preso dal montaggio frenetico delle scene belliche. Te le immagini come una discesa ripidissima, da farsi tutta d’un fiato, in apnea, pregando che i polmoni reggano. Invece no, le sequenze rallentano quasi a fermarsi a volte, per poi ripartire all’impazzata: il bullet time, come dicono quelli che sanno,  ti spiazza e un poco ti favorisce, ridotto com’è ad un complesso slow – motion;  l’inquadratura è spesso fissa o a inseguimento; la carrellata laterale o frontale. Riesci a vedere tutto, anche quello che accade in secondo piano. Inspira, espira, prendi fiato, si riparte.

Durante questo tempo, mentre rigeneri i polmoni e metti un po’ di ordine ai pensieri centrifugati  ti viene da pensare a Delio, quello ferito all’occhio – ce l’hanno per vizio, i Greci: o ciechi o orbi di un occhio devono essere gli aedi-, e all’importanza del racconto, ai modi di raccontare, al potere della parola: se Leonida avrà un briciolo di immortalità sarà merito di quel superstite. C’è da ragionarci su e c’è pericolo di sinapsi riattivate: vi prego, non ora più tardi: sto combattendo a fianco di Leonida contro un milione di Persiani, non distraetemi.

Adesso è davvero tutta discesa e quel molosso in clamide purpurea ti dà pure una spinta: “Il mondo saprà che degli uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti e che persino un dio-re può sanguinare”.

Per un attimo ci credi: forse è la musica, saranno i colori, Leonida è tosto e prova a dirgli di no, ma per un attimo ti trovi in mutande scudo e lancia. Passato quell’attimo, grazie a Zeus, scendi dalla giostra e sei vestito e disarmato.

Io non so, ma dalla sala sono uscito con una precisa convinzione: se il cinema fosse fatto solo di film così sarebbe tristissimo, certo, ma se non ci fossero film così saremmo noi un po’ più tristi.


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