«Restare umani» sulla morte del giovane rapinatore La riflessione del collettivo catanese Aleph

Mercoledì mattina una notizia più di altre ci ha colpiti: l’uccisione di un ragazzo di venti anni e il ferimento grave di un ragazzo di 15 anni a seguito di un tentativo di rapina in un distributore. Le dinamiche sembrano essersi parzialmente chiarite, anche se ancora i video delle telecamere del benzinaio non sono di dominio pubblico.

La cronaca
Francesco, e tre altre persone, di cui due minorenni, tentano una rapina nella notte tra martedì e mercoledì in un distributore di benzina in tangenziale. A sentire i parenti dei ragazzi, Francesco è da mesi senza lavoro e la rapina serve proprio ad avere a disposizione del denaro per campare. La dinamica dell’accaduto sembra essere stata questa: con due pistole finte, tre dei quattro vanno alla cassa del distributore. Un poliziotto fuori servizio si trova proprio dentro al bar del distributore e interviene, arrestando uno dei tre ragazzi. Gli altri due scappano fuori e vengono intercettati dal collega del poliziotto presente all’interno. Lui spara: Francesco è colpito alle gambe e muore dissanguato, il ragazzo di 15 anni viene colpito alla testa. Il ragazzo ferito è ricoverato in gravi condizioni all’ospedale, l’altro minorenne scappa e non è ancora stato trovato.

Le reazioni
Ci siamo ritrovati davanti a questo, e d’istinto abbiamo reagito, ci siamo sentiti in dovere di dire qualcosa, nonostante sapessimo che il quadro non fosse molto chiaro, nonostante alcuni dettagli non fossero ancora definiti. Nonostante sapevamo di poter risultare impopolari.

A diversi giorni di distanza, tolto l’impulso del momento, ritorniamo sull’argomento, perché ci teniamo a spiegarci meglio, ad esprimere meglio quello che pensiamo di questa situazione spinosa. 

Partiamo affidandoci alle parole dei familiari (che potete tranquillamente accusare di essere di parte): questi ragazzi vengono da Librino, quartiere certamente non fra i più semplici della città, e avrebbero agito spinti dal bisogno, dall’assenza di lavoro, dalla necessità di avere qualcosa di cui vivere.

Ora, noi non conosciamo direttamente Librino. Lo conosciamo indirettamente tramite le esperienze di tante persone che lavorano in quel quartiere, per le sue strade, ogni giorno. Conosciamo però altri quartieri popolari della città, complessi alla stregua di Librino, come Picanello e Antico Corso, che stiamo imparando a conoscere.

Sono quartieri in cui può capitare che un ragazzino di 15 anni smetta di andare a scuola, per semplice retaggio culturale o proprio perché c’è bisogno che produca- lavori – porti i soldi a casa. Sono quartieri in cui spesso il lavoro manca (e non da ora perché c’è la crisi, anche da più tempo) e se c’è è spesso sottopagato. La retta via in certi quartieri spesso ti porta a sgobbare tutto il giorno per pochi euro, e questo non basta per vivere dignitosamente. In certe situazioni, una cosa che può accadere è che si fanno delle scelte di vita azzardate, sbagliate. Si entra nel giro di spaccio (è una cosa semplice, che possono fare anche i ragazzini) o magari ci si ritrova a rapinare un distributore di benzina, per fare degli esempi.

Questo è il famoso contesto a cui più e più volte ci riferiamo e ci siamo riferiti. È certo una forte generalizzazione, ma non possiamo ignorarlo perché è una realtà che esiste e che determina molte dinamiche di quartiere. Non sono luoghi di vita in cui si vive in maniera lineare; in certi luoghi i concetti di legittimo e illegittimo, giusto e sbagliato, legale e illegale di mescolano, non hanno confini, smetti di distinguerli. Nel bene o nel male.

Perché?

Entrando in contatto con tutto questo è naturale chiedersi «come è possibile?». La prima cosa che ti aspetti, se sei ancora una persona che nutre ancora un minimo fiducia nello stato, è proprio un un suo intervento, attraverso sussidi, servizi sociali, scuola, aiuti, piani educativi e lavorativi.

Lo stato, come il Comune, in questi quartieri esiste, certo, ma in forme che i sopracitati fiduciosi nello stato forse non si aspettano: chiude le scuole nei quartieri a rischio per mancanza di fondi. Chiude gli asili pubblici, lasciando spazio ai privati; non assegna le case popolari né tanto meno pensa a sfruttare i fondi esistenti per ristrutturarne o costruirne di nuove; multa il baracchino dove vendi della merce perché “non in regola”; taglia alla sanità, perché i buchi procurati dai dirigenti adesso sono più alti e devi portarti i medicinali da casa se vuoi essere curato all’ospedale. Queste sono le soluzioni dello stato. Lo stato di diritto.
E quando occupi una casa o non ti fai sfrattare da casa perché non hai pagato l’affitto, quando allacci illegalmente la luce perché non puoi pagare le bollette, quando magari vai in piazza Duomo a chiedere conto alle istituzioni dei diritti e della dignità che ti è negata… ricevi sfratti, polizia, sgomberi, denunce. Lo stato o è assente o è presente in questo modo.

Che fare?
Questi sono i luoghi che abbiamo imparato e che stiamo imparando ancora a conoscere, a capire. 

Mettendo da parte tante convinzioni, tentando di esserci, di starci dentro, senza tanti complimenti, con tutte le contraddizioni e complicazioni del caso. Ben lontani dall’essere portatori di soluzioni, semplicemente facciamo quello che pensiamo sia giusto fare: trovare soluzioni comuni a problemi comuni. Senza delegarne la responsabilità a nessuno. Così nasce il doposcuola gratuito, così nasce lo sportello antisfratto, così nascono i momenti di aggregazione aperti a tutti. Il tutto dentro l’ennesimo posto abbandonato in città, e da noi occupato. Azione illegale (alla salute dei benpensanti) ma per noi legittima.

Tornando a Francesco
Queste nostre esperienze, anche se lontane dal quartiere di Librino, ci fanno comunque sentire molto vicina quella realtà. Siamo ancora una volta convinti del fatto che invocare più polizia o azioni di polizia più dure non sia la soluzione. Questo non significa plaudire ad ogni rapina fatta da “chi ha bisogno”. Però non significa nemmeno puntare il dito né, tanto meno, giustificare dei colpi di pistola, un morto e un ferito grave. Il punto è che con i fatti accaduti, ancora una vita si conferma la situazione in cui lo stato per certe persone è presente solo in alcune forme e non agisce sui contesti di cui sopra per evitare certe situazioni.
Guardare i contesti. Sempre. 

Guardare i contesti quando si tratta dalla rapina al distributore; guardare i contesti quando si tratta della militarizzazione del centro storico. I contesti, dentro cui nasciamo, ci formiamo, viviamo e che contribuiamo a creare. Da quello bisogna partire. E su quello bisogna lavorare.
Francesco non è solo vittima dello stato perché ucciso da un poliziotto. Francesco è vittima dello stato come molti altri perché lo stato lo ha conosciuto nel suo quartiere solo nelle sue forme repressive, e mai per quello che dovrebbe essere: formatore, sostenitore, aiuto. Ecco perché Francesco, almeno per noi, è una vittima dello stato.

Un’ultima cosa.
Dopo aver pubblicato le nostre prime considerazioni, alcuni hanno apprezzato, molti altri ci hanno criticato. Va benissimo ed eravamo consci che la nostra sarebbe stata una posizione impopolare. 

Su una cosa però non possiamo rimanere impassibili: essere felici, quasi inneggiare per la morte di Francesco, sperare che il ragazzino oggi in prognosi riservata muoia anche lui (così è «uno in meno») forse è troppo. Per tutti. Perché la vita umana, al di là dei soldi, al di là dell’illegalità, al di là dei contesti, vale più di tutto. La vita di Francesco valeva più di queste cose. La vita di un quindicenne vale più di queste cose. Possiamo tollerare tante cose, scritte e dette sul nostro conto oggi, ma non possiamo tollerare certi commenti soddisfatti per la morte di un ragazzo e la possibile morte di un ragazzino.

Collettivo Aleph


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