Leo Gullotta e la riforma dei teatri in Sicilia «Ancora una volta è un balletto politico-ministeriale»

Dal 17 al 29 marzo sarà a Catania, al teatro Stabile, con lo spettacolo Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi. «Prima del silenzio bisogna però parlare», sorride amaramente Leo Gullotta. L’attore di origini etnee interviene aspramente sulla scelta del ministero della Cultura di non includere i teatri di Catania e Palermo tra le strutture nazionali, ma inserirli tra quelli di Interesse culturale (Tric). «Di fronte a ciò che è successo, davanti a questa decisione, un po’ basito sono rimasto – confessa – Sono rimasto stupito, ma poi pensandoci meglio ho capito che sono cose che si ripetono. Ma non solo per quanto accaduto a Catania o Palermo», precisa. Il riferimento è al terzo ente tra i Tric, il teatro di Genova, tra i più antichi d’Italia assieme allo Stabile catanese. 

«Vedo ancora una volta un quasi sicuro balletto politico-ministeriale – commenta Gullotta – Quelli ammessi nella lista del ministero sono un numero limitatissimo». Solo sette potranno avere accesso agli ambitissimi finanziamenti di primo livello. Uno dei requisiti fondamentali inseriti nella riforma del settore avviata dal ministro Dario Franceschini è l’esistenza di scuole teatrali legate ai singoli enti. «Tra quei sette, molti non le hanno. O se le hanno, sono state inventate il giorno prima», attacca Leo Gullotta. Che parla della vicenda definendola «un colpo d’ascia per fare un po’ di repulisti». La ragione? «Avvantaggiare alcuni in base a chi era dall’altra parte del telefono». 

Dicono di voler ricominciare, imporre un nuovo corso e nuove regole. Ma in realtà hanno dato un’asfaltata

L’attore, che ha dato vita alla sua lunga carriera dal palco del Bellini, non stenta a mascherare l’insoddisfazione per quanto accaduto. «Non sono contento, non vedo una serenità politica decisionale di ciò che hanno discusso». E fa anche un esempio lontano dalla sua terra d’origine: «Il teatro di Genova, con una scuola famosissima e spettacoli straordinari in cartellone, è rimasto fuori». Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e Campania. I teatri Nazionali si fermano a Napoli, più a sud non vanno. «Il giro è sempre lo stesso». 

Cosa serve, allora, al settore? «Bisogna saper costruire i teatri. Palermo ha fatto uno sforzo incredibile. Con Catania non si sono voluti parlare? Probabilmente», ipotizza riferendosi all’idea di federare Biondo e Stabile in un’unica struttura regionale capace di rientrare con maggiore facilità nei vincoli ministeriali. Una ipotesi alla quale, col senno di poi, il direttore del teatro palermitano Roberto Alajmo avrebbe voluto dare più credito: «Forse se avessimo fatto una richiesta comune con Catania, sarebbe andata diversamente», ha dichiarato Alajmo a caldo. «Ma bisogna anche avere la voglia di poter ricostruire», sottolinea Leo Gullotta. 

Sulla questione si è levato un polverone di dichiarazioni. Il parlamentare all’Assemblea regionale siciliana Nello Musumeci ha chiesto di «convocare con urgenza la commissione Cultura dell’Ars». Luisa Albanella, esponente del Partito democratico, ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro Dario Franceschini per «sapere quali siano state le reali motivazioni che hanno escluso il teatro Stabile di Catania e il teatro Biondo di Palermo tra i teatri nazionali, avendo questi lavorato per soddisfare tutti i parametri richiesti dal decreto ministeriale». Per Slc, Cgil e per la Camera del lavoro etnea «si tratta di un’ingiustizia su cui bisogna venga fatta piena luce».

«Ancora una volta – sostiene Leo Gullotta – il ministero non tiene conto del teatro. È tutto diviso in gruppi e tribù. Più di una presa di posizione, è stata una presa di palazzo. Dicono di voler ricominciare, imporre un nuovo corso e nuove regole. Ma in realtà hanno dato un’asfaltata». A pagarne le conseguenze dirette sono loro, gli operatori della cultura. «Il teatro qui vive con due lire, ma in altri paesi nonostante la crisi viene mantenuto ai primi posti negli investimenti». Ma il popolare attore pensa anche ai destinatari, al pubblico: «Non vogliono portare la gente a vivere la costruzione culturale del Paese. Hanno fatto paste e pastette, senza voler guardare la volontà degli italiani». 


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