Scomparso il partigiano Antonino Mangano Mitraglia da Fiumefreddo alla lotta antifascista

Antonino Mangano, nome di battaglia Mitraglia, nasce a Fiumefreddo il 18 aprile del 1921 da famiglia contadina. È il primo di cinque figli, quattro maschi e una femmina, e all’età di dieci anni inizia il duro lavoro nei campi come bracciante. Già novantenne, con il suo portamento e la sua vivida memoria dimostrava di essere figlio del suo tempo, forgiato dal lavoro dei campi e dalla vita partigiana sulle montagne. Come tutti i partigiani che hanno combattuto era molto schivo e poco propenso a raccontare le atrocità della guerra e della morte. Mangano non è riuscito a celebrare il 70esimo anniversario della Resistenza. È scomparso prima, a 94 anni. I funerali si terranno domani, alle 15.30, nella chiesa Maria santissima Immacolata di Fiumefreddo.

Raccontami la tua storia da militare.
«A venti anni, nel 1940, sono chiamato alle armi e inviato a Torino alla scuola di guerra di cavalleria secondo squadrone Palafrenieri, dove mi occupo dei cavalli. Trasferito a Salsomaggiore m’inviano a fare la guardia a due alberghi il Porro e il Valentini, dove alloggiano i militari che frequentano la scuola ufficiali, oltre a noi vi era anche una guardia di civile. Tutto procede senza problemi fino all’8 settembre 1943; il giorno dopo una moto tedesca con due militari gira tra le case di Salsomaggiore. Allarmati io e altri quattro militari ci rifugiamo a casa di Dante Battistini, una delle guardie civili. Il 10 settembre arrivano diversi camion di tedeschi per un rastrellamento. Sono momenti drammatici, non sappiamo cosa fare, le donne di casa Battistini ci convincono a strappare i documenti militari e passare per civili, così per copertura andiamo a lavorare in una fornace, per la cottura dei mattoni. Nella fornace lavora anche un vecchio operaio antifascista che di nascosto organizza i partigiani. Tramite il suo aiuto siamo arruolati e armati e abbiamo le indicazioni per raggiungere le brigate partigiane in montagna. Ma, attraversando un campo di mais, ci viene incontro una donna che grida: “ Scappate, tornate indietro, dove andate? Più avanti è pieno di tedeschi, c’è un rastrellamento!”. Impauriti, torniamo di corsa alla fornace, dove ci nascondono tra i mattoni».

Qual era la vostra missione?
«Il nostro compito era di rendere insicura la via Emilia al passaggio dei tedeschi e di tenere sotto pressione il presidio di brigate nere di Salsomaggiore. Le incursioni contro i camion nazisti avvenivano preferibilmente di notte ed essendo in pochi attaccavamo gruppi non troppo numerosi, cercavamo di fermarli con vari trucchi. I Partigiani di Fidenza usavano la tattica di piazzarsi in mezzo alla strada in modo da far rallentare i camion che transitavano, ma i tedeschi si erano fatti molto sospettosi e, quando vedevano qualsiasi movimento lungo la strada, aprivano immediatamente il fuoco. La nostra tattica era di far nascondere sul ciglio della strada un nostro compagno mentre noi ci appostavamo 200 metri dopo, in modo che lui avesse tutto il tempo per identificare il tipo di trasporto che transitava e darci il segnale per l’attacco. A volte i tedeschi furbescamente avevano con loro una donna che gridava: “Siamo civili” nella speranza che cadessimo nell’inganno».

Ricordi un momento in particolare?
«Una delle principali azioni cui ho partecipato, è stata l’attacco al villino Catena di Salsomaggiore, una caserma fortino della brigata nera, nella notte tra 1 e il 2 novembre del 1944. L’azione nacque dalla necessità di liberare un nostro compagno caduto prigioniero, Eugenio Canali nome di battaglia Geni. All’attacco partecipò tutto il battaglione, il villino era una specie di fortezza difficile da espugnare e ben difeso, la nostra arma principale era una grossa mitragliatrice Breda 37, prima dell’attacco tagliammo i fili telefonici per impedire richieste d’aiuto. Piazzammo delle bombe per aprire dei varchi, questo incarico fu dato a Ricciolino un ragazzo fiorentino che si ferì, perché una bomba scoppiò all’improvviso. Lo scontro si protrasse fino alle 10 del mattino con la liberazione di Geni, che era stato torturato ed era irriconoscibile e di altri cinque ragazzi non partigiani prigionieri dei fascisti. Cinque fascisti riuscirono a fuggire attraverso un tunnel, molti furono catturati e il fortino smantellato in modo da non poter essere più utilizzato. Diversi fascisti furono feriti durante l’attacco, il comandante della caserma morì alcuni giorni dopo a Parma per le ferite riportate. In questa occasione ho conosciuto un compagno di Giarre, Sicurella, col nome di battaglia Riccardo che ricopriva i gradi di comandante. Poi ho un ricordo particolare della staffetta partigiana Vittoria, lei portava non solo le notizie dal paese ma soprattutto ci procurava da mangiare che otteneva con le tessere annonarie».

Che cosa avvenne dopo la Liberazione?
«Il 25 aprile il nostro distaccamento è stato mandato a Milano per la sua liberazione, qui per noi la guerra era finita. Il nostro pensiero era il ritorno a casa. Per aiutarci, la fabbrica Legnano ci donò una bicicletta ciascuno e 12mila lire, in cinque pensammo di comprare un’auto per il viaggio, tre siciliani, un calabrese e un tarantino, ma la Lancia sfortunatamente a Modena si ruppe. Non avendo altre risorse vendemmo le biciclette, questa vendita insospettì gli uomini delle Sap, Squadre di Azione Patriottica, che avevano il compito di ostacolare il mercato nero. Avendo appreso del nostro contributo alla resistenza e dei nostri anni trascorsi in montagna, ci aiutarono. Con passaggi a bordo di camioncini e dei più disparati mezzi di trasporto siamo arrivati fino a Roma e da qui a casa. La felicità del ritorno fu oscurata dalla notizia della morte di mio padre. Ho ripreso il vecchio lavoro di bracciante e di camionista, e per lunghi anni ho fatto molti viaggi al nord per trasportare prodotti agricoli».

Cosa ti spinse ad aderire alla lotta partigiana?
«La mia famiglia è stata sempre di sinistra; mia madre, quando passavano le tradotte, inveiva contro il duce e il re che mandavano in guerra a morire i figli della povera gente. Siamo cresciuti con gli ideali di pace e uguaglianza. Ideali che abbiamo e cerchiamo di trasmettere anche ai ragazzi della nostra famiglia. Mio fratello Giovanni Mangano, segretario della Camera di Lavoro di Fiumefreddo, una volta è stato arrestato per aver organizzato una manifestazione. Pertanto per me la scelta della montagna è stata naturale».

Sei mai tornato a Salsomaggiore?
«Spesso, con mia moglie, invitato dalla locale sezione Anpi che ogni anno, il 14 luglio, ricorda i caduti di Luneto. Sono stati incontri di grande commozione, di ricordi, con i compagni con cui ho passato molti anni di pericoli, paure e anche di grande passione, di entusiasmo ed esaltazione».


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