Giulietta, Farina e il derby col Messina Ovvero l’arte di non prendersi sul serio

Ho un’incondizionata simpatia per gli studenti, qualunque cosa studino. Simpatia che si nutre anche, naturalmente, d’un pizzico d’invidia per la loro giovane età e di una buona dose di nostalgia per gli anni in cui anch’io ero uno di loro. Ho simpatia per l’intera popolazione scolastica e – lo dico con il rammarico di chi la partita ha dovuto vederla in tv – ho trovato simpatica l’idea di mobilitare le scuole di Messina per riempire gli spalti dello stadio. Chiedendone l’adesione sui social – con l’hashtag #20milainsieME – all’invito ad andare tutti a tifare per i giallorossi.

Mi permetto quindi – con la tranquillità di chi ha visto la propria squadra tornare a casa con un non disprezzabile pareggio – di imbucare su queste pagine qualche pensiero destinato ai ragazzi della quarta B dell’Istituto Minutoli di Messina. I quali in questo momento stanno certo rimuginando su un risultato che avrebbero sperato migliore. E che però, a prescindere da quanto accaduto in campo, il loro derby lo hanno perso ben prima che al San Filippo si cominciasse a giocare, per via del post con cui hanno aderito all’invito. Esponendosi, con una manovra d’attacco un po’ scriteriata, al fin troppo facile contropiede degli avversari. E uscendo dal campo amico con un netto 2 a 0 al proprio passivo.

Prendo atto con rassegnazione del fatto che il primo gol, i miei giovani e sconosciuti amici del Minutoli, se lo siano fatti segnare dalla grammatica italiana. Dimostrando di non aver imparato, in dodici anni di scuola, che il presente indicativo «fa» si scrive senza accento e che il futuro «erutterà» l’accento, viceversa, lo pretende. Più imbarazzante mi pare la circostanza che questi ragazzi non abbiano saputo partorire nulla più di quanto qui sopra si può leggere; non abbiano saputo trovar di meglio che ricorrere alla più infantile coprolalia e al più scontato incitamento – rivolto all’Etna – a mettere in campo attività distruttive (di natura, peraltro, un po’ improbabile dal punto di vista vulcanologico).

Va bene: probabilmente non è questa la sede giusta per infliggere a questi ragazzi un lungo sermone sulla violenza. Qui stiamo parlando di una cosa tutto sommato scema, come due scritte a pennarello messe in giro su Internet, che ruota intorno a una cosa altrettanto scema, come una partita di calcio. Però, mi pare, c’è modo e modo di fare gli scemi. E un granellino di cultura e fantasia può aiutare anche in questo campo: anche quando c’è semplicemente da sfottere i tifosi avversari per il fatto, del tutto contingente, che abitano in una città e tifano per una squadra diversa dalla nostra.

Guardiamo questa scritta, per esempio. La esposero, non ricordo quanti anni fa, i tifosi del Napoli, in una partita giocata contro il Verona. E rimane, a modo suo, un esempio insuperato di come si possa elevare al sublime anche la più vieta e sessista delle offese. Il punto di partenza, è evidente, non si spinge oltre il desolante luogo comune circa l’infedeltà coniugale delle donne collegabili alla tifoseria avversaria. Ma il risultato finale è nobilitato dall’inaspettato riferimento shakespeariano; e secondo me ci vuole autentico genio per mettere in gioco nientemeno che l’intemerata reputazione della giovane Capuleti, sol per gettare maliziose ombre sull’albero genealogico degli avversari. Ora, purtroppo, io ignoro chi sia l’artefice di questo insuperato epigramma. Ma sono del parere che egli meriti, nel Pantheon della parola aspra e tagliente, un posticino a fianco di Dante Alighieri. Il quale – volendo un giorno scherzosamente rivolgere la stessa offesa a un suo amico soprannominato Bicci – non trovò di meglio che realizzare un’intervista alla madre: necessaria per accertare, tra le molte ipotizzabili, l’esatta discendenza patrilineare del figlio:

«Bicci novel, figliuol di non so cui,
s’i’ non ne domandasse monna Tessa»…

Ma lasciamo stare Dante: restando a Messina-Catania, mi pare, qualche esempio di ironia a noi vicino possiamo citarlo senza fatica. Ironia che, ancora una volta, innalza sopra la soglia della volgarità un altro luogo comune da stadio: che consiste nell’inzuppare il pane nelle calamità, o presunte tali, che affliggono le città in cui risiedono le tifoserie contrapposte. Un modulo, questo, che gli illetterati declinano nelle noiosissime apostrofi all’Etna o al Vesuvio. Ma che si può sfruttare con ben diversa fantasia (e un certo grado di aggiornamento alla cronaca). Come penso che avvenga nell’esempio che segue. Al quale non manca, peraltro, una certa dose di cattiveria. 

Ora, se io fossi per un giorno l’insegnante della quarta B del Minutoli, proverei a spiegare ai miei ragazzi che anche la satira, l’invettiva, lo sfottò, e tutto quel che dalle nostre parti si chiama liscìa – tutto questo può e deve essere considerato un’arte. E che non è scritto da nessuna parte che, per il semplice fatto che si entri in uno stadio, la ragione debba stare dalla parte di chi picchia più forte o di chi urla le cose più cretine. Proprio al contrario. 

Alcuni anni fa, a Catania, ci fu una partita tra Catania e Inter diretta da un arbitro a parer mio pessimo, il signor Farina di Novi Ligure. Il quale annoverava già tra i suoi precedenti lo scandaloso arbitraggio di almeno un’altra partita giocata al Massimino. E quella sera fece vincere immeritatamente i nerazzurri con una serie di decisioni ostinate, univoche e tutte favorevoli, guarda un po’, alla squadra di maggior blasone. La nostra tifoseria – in quegli anni conosciuta, purtroppo, per alcuni precedenti di violenza insulsa e feroce – inventò allora, sul momento, la più sottile delle vendette: si mise ad applaudire il signor Farina, a fare gioiosamente il tifo per lui, a indirizzargli cori e ovazioni degni di Diego Armando Maradona. Sputtanandolo così a vita agli occhi del mondo del calcio. Il signor Farina, infatti, si offese moltissimo. Come difficilmente si sarebbe offeso chi fosse certo della propria innocenza. Tant’è che uscì dal campo imbronciato come un moccioso: abbandonando sul terreno di gioco perfino il bon ton federale che avrebbe prescritto, all’epoca, il rito del cosiddetto “terzo tempo” con i giocatori.

Ecco: gli farei studiare un po’ di scienza dello sfottò, ai simpatici ma ingenui ragazzi della quarta B. E poi – a costo di apparire retorico – gli farei leggere qualche riga dell’orazione di Pico della Mirandola sulla dignità dell’uomo. Laddove la nostra specie viene presentata come anello di congiunzione tra il Cielo e la Terra. Laddove il buon Dio avverte Adamo di avergli dato, come cosa più preziosa, semplicemente il dono della possibilità: «Potrai degenerare al livello dei bruti, potrai rigenerarti al livello divino, a seconda di quello che deciderà l’animo tuo».

Ecco cosa direi, ai ragazzi della quarta B: direi loro di studiare. Per evitare di diventare, un giorno, degli adulti dal comportamento imbarazzante. Non dico come Belpietro (a tutto c’è un limite, via). Ma forse – e sarebbe già un bel guaio – come Salvini.

Ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.


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