Mafia, politica e affari: parla Sebastiano Ardita «L’accordo tra poteri è nella storia della città»

«Che l’avvento di Enzo Bianco nei primi anni ’90 abbia segnato la discontinuità con la vecchia politica è quello che pensarono sia la stampa che l’opinione pubblica. Ma questo non può essere una patente che rende immuni dal pericolo di compiere qualcosa da cui possano nascere giudizi diversi». È questa l’idea di Sebastiano Ardita, magistrato e autore del libro Catania bene, sulla vicenda dell’intercettazione tra il sindaco etneo Enzo Bianco e l’editore del quotidiano La Sicilia Mario Ciancio in merito all’affare Pua. Entrambi i personaggi sono presenti nel volume di Ardita. Che, interpellato da MeridioNews sull’argomento, dice: «Non spetta a me fare valutazioni sul caso specifico, peraltro, oggetto di un dibattito politico piuttosto aspro. Ma il fatto che nella città i poteri, anziché controllarsi a vicenda, trovino interessi e accordi è proprio la tesi del mio testo». Il libro del magistrato traccia la storia della presenza di Cosa nostra e delle sue ramificazioni nel capoluogo etneo fin dalle origini. Uno spunto che permette di descrivere la triangolazione tra politica, mafia e imprenditoria a Catania. 

La storia della mafia a Catania ha radici lontane nel tempo. In un passo di Catania bene si legge: «È esistita ed esiste a Catania una mafia che ha anticipato di vent’anni la strategia dell’inabissamento. E riusciva a penetrare nelle istituzioni e nel mercato». Come si manifesta oggi questo rapporto?
«In modo sostanzialmente analogo a quanto avveniva in passato, ma con la differenza che Cosa nostra oggi ha la pretesa di entrare nelle stanze che contano in modo più diretto, controllando più da vicino gli altri poteri o addirittura con propri rappresentanti. I profitti illegalmente accumulati per decenni e l’altrettanto ultradecennale mancanza di strumenti per scoprire, ma soprattutto per confiscare, quei tesori sono la causa degli investimenti incomprensibili che continuano a manifestarsi. Nonostante la morsa della crisi economica. Mentre vanno giù definitivamente le saracinesche delle storiche attività commerciali, nascono quasi inspiegabilmente ipermercati, alberghi, ristoranti, sale da gioco create dopo la legalizzazione del gioco d’azzardo».

Un collegamento tra potere e criminalità che, quindi, si presenterebbe ancora forte. E in merito al quale, con riferimento al passato, lei scrive: «Anche la politica a Catania ha vissuto spesso in simbiosi con la mafia e ne ha rappresentato il brodo di coltura». Ci sono differenze tra ieri e oggi? C’è stato un punto di rottura e, se sì, quale?
«Oramai si assiste a patti sempre più fitti e interessati per lo scambio politico-elettorale, e che danno luogo a nuove e più salde alleanze. La lotta di Cosa nostra per il potere militare si è tutta trasferita nella ricerca del potere economico e politico, senza che di ciò ci sia stata particolare consapevolezza nell’opinione pubblica. I punti di rottura, poi, si realizzano quando le due realtà entrano in conflitto insanabile. Mentre gli scontri nati per questioni di interesse sono sempre sanabili con nuovi patti. A giudicare da quel che accade, non so se la politica a Catania abbia fatto quel salto di qualità che la può porre in contrasto insanabile con la mafia. Non credo questo sia ancora avvenuto, se guardiamo a quello che viene fuori da indagini e processi. Però non vi è dubbio che, ieri come oggi, non tutti fanno politica nello stesso modo spregiudicato e carrierista che ha reso il capoluogo etneo noto alle cronache giudiziarie».

Spesso si sente dire che le alleanze tra istituzioni e imprenditoria sono inevitabili. Ma c’è un limite entro cui questo rapporto è sano e utile per la città?
«Il limite è dato dal reciproco controllo tra poteri, nell’interesse pubblico. Se la finanza e il mondo imprenditoriale esprimono la classe politica e poi si avvalgono dei suoi servigi, i cittadini diventano sudditi dei poteri forti. Ma questo pericolo, che provo a descrivere nel libro, è particolarmente attuale anche per via del deficit di democraticità che vi è nella scelta dei rappresentanti del popolo. Un problema italiano che nel Meridione si accentua per la presenza dei poteri mafiosi».

Gli stessi poteri ai quali spesso ci si oppone con proclami che risultano essere soltanto una facciata. Come si è passati dalla sincera lotta alla criminalità organizzata a quella che viene definita la retorica dell’antimafia?
«Si tratta di due situazioni differenti. La sincera battaglia al potere mafioso non ha mai preceduto la retorica che viene interpretata per convenienza da chi vuol darsi un’etichetta. Quest’ultima, poi, è una scelta interessata a ottenere degli obiettivi e può giungere fino a mascherare modalità e azioni francamente mafiose. Del resto Cosa nostra catanese è un’espressione di interesse economico più che di potere militare. E dunque, pur di raggiungere un obiettivo, è disposta a perseguire ogni possibile strada fino a quella estrema di travestirsi da antimafia.
In modo molto più subdolo, l’antimafia di facciata può servire ad avvicinare le istituzioni antimafia (magistrati, prefetti e polizia) per tentare di confonderle, di condizionarle e di blandirle».

In questo quadro, che rischia di complicare e confondere ruoli e azioni, rimangono alla politica e all’imprenditoria degli anticorpi dai quali lei ripartirebbe?
«Gli unici sono quelli che provengono dalla democrazia: dal controllo della base sulle istituzioni, dalla pretesa che i cittadini dovrebbero manifestare affinché ciascuno sia chiamato a svolgere il proprio ruolo senza promiscuità, patti o alleanze. E soprattutto senza conflitti di interesse. Basterebbe poco perché tutto ciò potesse essere attuato: solo una maggiore coscienza civica, la stessa che costringa ciascuno a operare nell’interesse del popolo, come è scritto nella nostra Costituzione».


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