Porto, nuova struttura per gli sbarchi dei migranti Antirazzisti: «Controllare che non diventi hotspot»

Non sarà un hotspot. La capitaneria di porto, la prefettura e la protezione civile lo precisano in coro, e con forza. Si tratta, invece, di «una tendostruttura all’interno della quale saranno effettuate le operazioni di fotosegnalamento, controllo medico e prima assistenza ai migranti». È questa la novità che si prepara al porto di Catania. Dove nel giro di un mese dovrebbero essere montati dei grossi gazebo – fissati a terra – che forze dell’ordine, personale sanitario, associazioni e persone appena salvate dal mare potranno usare nel corso delle operazioni di sbarco. «Non è prevista alcun tipo di permanenza dei migranti nell’infrastruttura portuale – precisa l’ammiraglio Nunzio Martello – Non accadrà niente di diverso rispetto a quanto accade tutt’ora, solo che tutte le persone coinvolte negli sbarchi troveranno condizioni più agevoli». Un aiuto, insomma, sul quale però la Rete antirazzista catanese vuole vederci chiaro.

Per il momento non c’è nulla di definito. La costruzione di questo maxi-tendone è ancora una questione interna, sollecitata – pare – direttamente da una circolare del ministero dell’Interno. A sostenerlo è Salvo Consoli, consulente del Comune per la Protezione civile e da tre anni impegnato sul fronte dell’accoglienza ai migranti: «La situazione era diventata insostenibile – dice – Lavoriamo in continua emergenza quando, in realtà, affrontiamo gli sbarchi quasi quotidianamente». Motivo per il quale sarebbe necessario «un piccolo ufficio affinché i migranti non stiano sotto il sole». Ad acquistare la il tendone dovrebbe essere il Viminale che, finita l’emergenza, donerà la struttura al Comune di Catania affinché la usi nei momenti di necessità. «Abbiamo fatto delle riunioni organizzative – prosegue Consoli – In quelle circostanze si è parlato di rendere più organizzato il momento dell’arrivo sulla terra ferma». Perciò niente permanenza notturna, né procedure di smistamento nei Cara o espulsione dai confini nazionali: tutte prerogative degli hotspot. Ideati per rendere più rapida la permanenza in Italia di chi arriva in barcone ma, nei fatti, diventati un altro adempimento burocratico che si rifà a normative che, secondo molti, non sarebbero chiare.

Da qualche tempo le imbarcazioni cariche di migranti salvati nel Canale di Sicilia attraccano tutte nello stesso molo. Quello accanto al quale arrivano le navi da crociera piene di turisti. «Quando metti a disposizione un’intera banchina del porto e costruisci una struttura che non si sa per quanto tempo resterà là, è lecito pensare che possa diventare una sorta di hotspot o, comunque, qualcosa che ci somiglia», interviene l’assessore ai Servizi sociali del Comune di Catania Angelo Villari. «Le motivazioni alla base di questa nuova costruzione sono importanti – aggiunge l’esponente della giunta guidata da Enzo Bianco – È indubbio che un luogo refrigerato e all’ombra sia un gesto di grande umanità nei confronti di chi arriva dopo un lungo viaggio in mare». D’altro canto, però, «bisognerà vigilare sul fatto che all’arrivo delle navi di soccorso si sappia in pochissimo tempo dove i migranti e le migranti dovranno essere trasferiti».

Un problema, quello dei trasferimenti, al quale se ne aggiunge un altro: la trasparenza delle operazioni di controllo. Troppo poca secondo la Rete antirazzista catanese, che periodicamente denuncia l’impossibilità anche solo di dialogare con i cittadini stranieri.«Se questo tendone sarà chiuso – domanda il referente degli antirazzisti Alfonso Di Stefano – come faremo a verificare che non venga usata violenza contro chi non vuole lasciare le sue impronte digitali? Come li informeremo sui loro diritti? Come potremo controllare che non si trasformi in un hotspot in breve tempo?». Un po’ com’è successo al Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, che adesso è diventato anche un hotspot su indicazione del ministero dell’Interno. «Tra l’allarme terrorismo e queste novità non si può dire che i migranti arrivino in un clima sereno – conclude Di Stefano – Arrivano in un porto militarizzato e, neanche il tempo di mettere i piedi a terra, si trovano la polizia scientifica che vuole le loro impronte digitali. Non riusciamo a costruire un sistema di accoglienza più umano?».


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