Il giornalismo? Si impara facendolo

David Randall è senior editor dell’Independent on Sunday e tra le tante cose illuminanti che ha scritto (è autore dello splendido saggio Tredici giornalisti quasi perfetti) ce n’è una che farebbe vibrare i neuroni di qualunque cronista al mondo, a prescindere dalla sua esperienza, dalla sua testata e dal suo medium di appartenenza.

Randall scrive che la vita dei reporter è governata dalla qualità dei loro capocronisti. Sembra l’uovo di Colombo e di fatti lo sarebbe, se non fosse che lo stesso Randall si affretta ad aggiungere che la maggior parte di coloro che scrivono saggi sul giornalismo questo non lo dicono perché non sono giornalisti. E dunque di capocronisti non ne hanno mai avuti.
Randall coglie in pieno il paradosso di un mestiere dove chi fa il cronista raramente scrive sul mestiere stesso, fatta eccezione per certi manuali dove si approfondiscono tecniche nuove o esperienze speciali, diari di reportage o raccolte di articoli importanti.

Il compito di teorizzare il giornalismo, con piglio colto e accademico, lo si lascia di norma agli studiosi dei media, che di solito colgono molto bene lo spirito della professione.
Solo che non la esercitano. E, di conseguenza, non la saprebbero insegnare concretamente.
Faccio un salto indietro negli anni. L’indimenticato Montanelli disse più volte che quella del giornalista non è una professione ma un mestiere. Un mestiere che si impara nei giornali o nelle televisioni. Oggi avrebbe certamente aggiunto i nuovi media.

Pure Biagi pensava la stessa cosa e invece di teorizzare la professione la esercitò sino a che le forze glielo consentirono. Scriveva, e scriveva, senza mai delegare a nessun volenteroso biondino.
Ho scomodato tre mostri sacri della professione di giornalista perché mi serviva essere spalleggiata in un ragionamento semplice semplice: il giornalismo si impara facendolo.
E si impara facendo di tutto, dal resoconto di un convegno all’intervista al potente, dalla riscrittura onesta di una velina al pezzo di giudiziaria, dal semplice giro di nera all’inchiesta rognosa, dalle colonne di flash al difficile e incompreso lavoro al desk.

Ecco perché serve un capocronista. Perché di tutte queste cose, soprattutto in fase di formazione, è solo un altro collega che può farti da maestro. Non un capoufficio, né un professore, né un burocrate e neppure un comunicatore ufficiale, per quanto bravo.  A ciascuno il suo mestiere.

Lo sanno benissimo tutti quegli studenti che hanno fatto i volontari al Festival di giornalismo di Perugia. Di quelli che – cito Vittorio Zambardino –  “si muovono usando la rete come un luogo e terreno di iniziativa”, e che “hanno fatto incazzare a morte Gianni Riotta alla fine di una conversazione appassionata sul giornalismo come watchdog del potere, nella quale non era prevista l’arroganza del popolo della rete che viene a farti le bucce anche in modo arrogante (come dire, il potere sei tu, di che parli?)”.

Bene tra questi c’erano pure i redattori di Step 1, che hanno chiesto al direttore di Repubblica Ezio Mauro ciò che nessuno aveva osato chiedere, e che si sforzano di fare ciò che in Italia inizia ad interessare il pubblico della domenica sera: videogiornalismo. Cosa faranno dopo la laurea non si sa. Se diventeranno professori, poliziotti, pubblicitari, agenti di viaggio, portieri di notte, addetti stampa o direttori di testata, non importa. Avranno comunque capito cos’è un giornale e come funziona, proprio perché fatto da giornalisti.
Volete che tutto questo diventi altro?  Fate pure.
Poi però non chiamatela palestra di giornalismo.  

* giornalista, docente a contratto di “Comunicazione, televisione e nuovi media”


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