C’eravamo tanto amati…

Quando si tratta di separazioni e divorzi, poco importa se consensuali o «per colpa», il bilancio della vita in comune è sempre scabroso. Due anni e mezzo fa, Antonio Pioletti, past preside di Lingue, era stato tra i protagonisti della campagna elettorale per il rettorato. Poi, al secondo turno, aveva stretto un «patto politico e programmatico» con Toni Recca, past preside di Ingegneria, contribuendo a determinarne l’elezione. Dopo l’elezione (2 ottobre del 2006), fu nominato prorettore. Poi, un anno fa, nel maggio 2008, fu improvvisamente sostituito. Pioletti scrisse allora, proprio su step1, una lettera aperta, difendendo l’accordo di programma con Recca e attribuendo il suo allontanamento a «calcoli elettoralistici» e a uno stile di governo «personalistico». Adesso, durante l’ultima campagna elettorale, è rimasto a osservare. Non ha voluto intervenire né rilasciare interviste prima del voto. Poi, mentre lo scrutinio confermava la vittoria annunciata di Recca, ha parlato di una campagna elettorale «asfittica». E ha parlato di due «grandi assenti: gli studenti e i sindacati».

Lei, professore Pioletti, non si sente un «grande assente»?
«Non mi sento assente, né, soprattutto, grande. Non ho mai nascosto le mie opinioni. Al di là del mio voto, ho voluto prendere una certa distanza da questo tipo di campagna elettorale. Non ho condiviso i tempi stretti del dibattito: non si può, il 23 marzo, fissare il voto al 27 aprile, con motivazioni che mi sembrano inattendibili: un dibattito un po’ più lungo non avrebbe certo paralizzato l’Ateneo o la ricerca. Non ho condiviso neanche le modalità della campagna: non c’è stato modo e tempo, ad esempio, di tenere confronti all’interno dei Dipartimenti; si sono fatti incontri che accorpavano diverse facoltà riunendo un numero troppo elevato di docenti e personale. C’era tempo solo per qualche domanda. Insomma, si è costruito un meccanismo che ha limitato la possibilità di confronto al di fuori di schieramenti precostituiti, come se si trattasse di una pratica fastidiosa da chiudere nel più breve tempo possibile. Ho rappresentato al Decano, prof. Bellomo, questi rilievi, ma inutilmente».

L’impressione, dal punto di vista di una redazione studentesca, come quella di step1, è che tra le manchevolezze di questo confronto elettorale ci sia stato anche un deficit di contenuti. Per esempio, i problemi della didattica.
«Questo è vero. Ed è un’assenza grave. Soprattutto se pretendiamo di porre lo studente “al centro” dell’Università».

Proviamo a entrare nel merito, allora. Nel prossimo anno accademico la maggior parte delle facoltà dovrà applicare la L. 270 e i cosiddetti “requisiti necessari”. Ciò impone, tra l’altro, una riflessione sul 3+2. A che punto siamo?
«In alcune aree, per esempio nella maggior parte delle facoltà umanistiche, il 3+2 ha palesemente fallito. Ha fallito su scala nazionale, perché quando si è istituita la laurea triennale, a costo zero, non dimentichiamolo, non sono stati minimamente previsti profili professionali riconosciuti nel mondo del lavoro. Cioè, l’impatto con il mercato del lavoro è stato la cartina di tornasole d’un flop evidente. Il triennio non fornisce spesso né una preparazione generalistica né una professionalizzante. Si aggiunga a tutto ciò l’approccio sbagliato che spesso ci ha caratterizzato».

 
L’abolizione del valore legale del titolo di studio migliorerebbe la qualità della formazione?

«Sono contrario a questa visione, che a mio parere è un modo superficiale e forviante per aggirare i problemi. Bisogna invece conferire al riconoscimento legale del titolo un valore sostanziale: un valore di qualità e di rispondenza al mercato del lavoro. Accompagnare il certificato di laurea con il diploma europeo “Supplement”, una certificazione che consente di tracciare un profilo del laureato, del suo curriculum, delle sue competenze, è ad esempio un modo per andare in questa direzione. Ma a Catania siamo molto indietro».

 
Per quanto riguarda la formazione post-laurea, ritiene che l’offerta didattica sia adeguata?

«Bisogna razionalizzare l’offerta dei master, che attualmente è un’offerta “selvaggia”. E serve un’istituzione ben meditata delle Scuole di dottorato. Ma esse non possono essere operazioni di politica accademica: devono nascere da una riflessione di carattere scientifico».

 
Parliamo di Catania. A che punto è, complessivamente, la riflessione sulla didattica?

«Entro dicembre 2009,se non ricordo male, dovremo trasmettere le nostre proposte di applicazione dei requisiti necessari. E non vedo indirizzi strategici dell’Ateneo. Non è chiaro che cosa potenziare e perché, che cosa chiudere e perché, quali strumenti attivare per non ricorrere tout court al numero chiuso o al numero programmato. Non vedo l’applicazione di criteri e parametri culturali che siano anche collegati alle esigenze sociali».

 
Lei è sempre stato contrario al numero chiuso. Ma pensa che si possa evitare, anche in vista dell’applicazione dei “requisiti necessari”?

«Rimango contrario al numero chiuso e credo che l’opposizione debba essere la più ferma possibile. Prevedo però che in molte situazioni saremo costretti a ricorrere al numero programmato, non per nostra scelta ma per obbligo, determinato dal taglio dei finanziamenti e dalla normativa vigente».

 
Ma se tutto dipende dalle scelte nazionali, l’Università non può far nulla…

«Qualcosa si può fare. Rispetto alle iscrizioni, bisogna operare in modo molto più incisivo nell’orientamento preuniversitario. Prevedere test d’ingresso non per escludere, ma per orientare. Anche al fine di limitare l’abbandono tra primo e secondo anno: un abbandono che a volte deriva dalla scelta di una Facoltà per la quale non si è tagliati, ma che a volte ha cause materiali su cui si può intervenire».

 
Per esempio?

«La mancanza di adeguati servizi per gli studenti: servizi di ausilio alla didattica (assente da noi una sistematica offerta on line di materiali didattici), al diritto allo studio. Sono carenti nel numero e nella qualità laboratori multimediali, aule studio, attività di tutorato intrauniversitario, posti e servizi di Biblioteca. Mancano mense. L’offerta degli alloggi è abbandonata al mercato nero, con situazioni logistiche spesso fatiscenti. Di questi temi parlavo nel mio programma del 2006, proponendo un’Agenzia degli affitti con una Carta dei requisiti degli alloggi. Il programma della professoressa Zaira Dato ha ripreso questo tema e anche il professore Recca, nelle nuove proposte pubblicate alla vigilia del voto, ha fatto riferimento alla questione. Ma ora servirebbe un intervento concreto, finalmente».

 
Torniamo ai “requisiti necessari” e alle scadenze imminenti. Cosa succederà alla fine di quest’anno?

«Ci sarà certamente una diminuzione del numero dei corsi di laurea. Il che è positivo, se si stabilisce però strategicamente quali corsi verranno eliminati, come e perché. Del tetto alle iscrizioni ho già parlato. Ma non è detto che ci si debba per forza adeguare alla logica neomalthusiana del numero chiuso. Esiste qualche soluzione per adeguarsi ai requisiti, garantendo a molti una didattica di alta qualità. Si possono fare dei corsi interfacoltà. Per esempio Scienze del Turismo. Attualmente lo tiene Economia, altre Facoltà legittimamente lo rivendicano, ma si tratta di un settore su cui devono naturalmente convergere anche Lettere, Lingue, Scienze della formazione. Perché non farlo insieme?».

 
Parliamo piuttosto di Scienze della comunicazione, un corso frequentato da più del 7% degli iscritti al Siculorum Gymnasium. Quando lei era preside di Lingue ne istituì uno all’interno della sua facoltà. Qual è il bilancio?

«Nelle situazioni in cui manca una tradizione precedente di studi e di formazione, se ne vale la pena, è giusto costituirla. Come abbiamo fatto a Ragusa per l’Orientalistica. Lo sbocco occupazionale immediato non può essere l’unico criterio per attivare i corsi di laurea: altrimenti potremmo anche smettere di formare insegnanti o perfino operatori del turismo… Detto questo, dobbiamo ammettere che i nostri corsi hanno presentato alcune lacune. In parte erano corsi tradizionali che avevano modificato l’etichetta. Ma negli anni sia Lettere che Lingue hanno fatto grandi sforzi per raggiungere gli obiettivi formativi».

 
C’è un futuro, allora, per questi corsi?
«I corsi vanno potenziati, non certo chiusi. Dai laboratori, dalle esperienze della creatività giovanile arrivano segnali positivi. Bisogna fare di più per cinema, teatro, musica, informazione. E non vedo su quali tavole delle leggi stia scritto che a Catania non debba esserci una scuola di giornalismo o un corso di laurea specialistica in giornalismo. Inoltre, le Scienze della comunicazione riguardano anche i beni culturali, la pubblicità. E, anche stavolta, la strada migliore mi sembrano i corsi interfacoltà. Che dovrebbero coinvolgere per lo meno Lettere, Lingue e Scienze politiche».

 
Si è parlato spesso, in passato, della costituzione di un “Polo umanistico”. Sono stati fatti passi avanti? È una prospettiva su cui lavorare ancora?

«C’è stata in passato un’attenzione che ultimamente è venuta a mancare. Non si è andati oltre qualche collaborazione bilaterale tra facoltà. Mi chiedo se ci sia davvero la volontà di imboccare questa strada con corsi interfacoltà, laboratori e iniziative in comune. Dovremmo imparare a lavorare a rete. Tra l’altro, a giudicare dalle linee del governo (ma anche dalle scelte di alcuni partiti di opposizione), si va verso un’Università che muterà il rapporto tra Facoltà, Corsi di laurea e Dipartimenti».

 
Cosa pensa della politica dell’Ateneo nei confronti della Scuola Superiore?

«La Scuola Superiore non è in concorrenza con l’Ateneo: è un livello dell’articolazione del sistema universitario, un grande laboratorio di esperienze scientifiche e didattiche che può essere da traino a tutto il sistema. Io sono per un’autonomia giuridica e amministrativa finalizzata alla crescita del sistema universitario nel suo complesso. Il che non significa separatezza. Del resto, gli studenti che superano la selezione per l’iscrizione alla Scuola Superiore di Catania sono studenti iscritti anche all’Ateneo».

 
Il rettore Recca, subito dopo l’elezione, ha parlato di una stretta collaborazione con Palermo per ottenere dal governo maggiore attenzione verso la Scuola Superiore.

«Che debba esserci un rapporto con altre Università è ovvio. Quindi ben venga Palermo, ma il progetto dev’essere molto più ampio e articolato. Durante la gestione di Rizzarelli si era progettato che Sassari, Palermo, Messina e Università della Calabria dovessero entrare a far parte della Scuola superiore di Catania. E non dimentichiamo la vocazione mediterranea della scuola. Con il professore Rizzarelli si proponeva l’istituzione di un Collegio euromediterraneo a Catania, un luogo di formazione dei gruppi dirigenti del sistema universitario a livello euromediterraneo. Lo ritengo fattibile e d’importanza strategica, soprattutto una proposta da non farci “rubare”».

 
Cosa pensa della politica dell’Ateneo nei confronti delle sedi decentrate?

«Ritengo che durante il Rettorato che ha preceduto quello attuale vi sia stata un’espansione non ben meditata dei decentramenti, non sorretta da analisi del bacino d’utenza, da prospettive di sviluppo finanziario, strutturale e logistico. Da qui i debiti dei consorzi verso l’Ateneo, e poi il problema di riscuoterli. Ma bisogna distinguere tra esperienze negative e positive. Non solo dal punto di vista finanziario, ma anche da quello didattico. E bisogna scegliere. Io sono per pochi decentramenti, ma di qualità. Alcune esperienze vanno potenziate, o trasformate in strutture meno dispendiose ma altrettanto importanti (scuole di perfezionamento, lauree specialistiche, master, scuole di dottorato). In ogni caso, decentrare non può significare solo avere aule e fare lezioni. Ci vuole didattica di qualità, ci vogliono laboratori, ci vogliono biblioteche. E, accanto alla didattica, bisogna fare ricerca».

 
Quali misure concrete proporrebbe per soddisfare le richieste dei precari della ricerca?

«A livello nazionale, bisogna difendere e sviluppare l’Università pubblica. Opporsi ai tagli. Richiedere, come previsto dalla Dichiarazione di Lisbona, almeno il 3% del PIL per formazione e ricerca. Far crescere il budget per edilizia universitaria, internazionalizzazione, insegnamento delle lingue straniere con lettori madrelingua in ogni facoltà. E naturalmente andrebbe abbattuto l’attuale semiblocco del turnover. Questo livello nazionale è fondamentale. Trovo che l’atteggiamento della Crui rispetto alle scelte del Governo sia stato debole e talora ambiguo. A livello locale, sono da precisare ulteriormente i criteri di spesa. Se ho a disposizione 100, non posso investire tutta la somma, e nemmeno la maggior parte di essa, per gli sviluppi di carriera. Già è stato affermato in Ateneo e attuato. La maggior parte delle risorse dev’essere investita per dare posti di ruolo ai giovani».

 
E questo è fattibile, in tempo di tagli?
«Rispondo con una domanda. Se ci saranno i tagli, come verranno operati nel nostro Ateneo? Io sarei nettamente contrario a tagli lineari. Si deve invece decidere dove spostare più risorse e dove invece si deve risparmiare. Credo che le risorse vadano indirizzate su didattica, ricerca, internazionalizzazione, servizi agli studenti, sbocchi per i giovani. In altri settori si può razionalizzare, eliminare sprechi. Ma su questo serve una discussione collegiale, che fin qui non c’è stata».

 
Ritiene che, dopo queste elezioni, la gestione sarà più collegiale che in passato? O si va verso una gestione più monocratica rispetto al primo mandato di Recca?

«Per affermare la collegialità non basta sedersi occasionalmente tutti insieme intorno a un tavolo. Collegialità è un metodo per fare le scelte e individuare gli obiettivi. Ma questo non dipende soltanto dal rettore. Mettere in piedi strumenti di partecipazione e controllo democratico sulla gestione dell’università dipende da noi, da tutta la comunità. Qui devo fare un’autocritica: quando ho accettato di fare il prorettore, impegnandomi su questioni importanti, progettavo anche di contribuire a sviluppare strutture che rafforzassero la partecipazione democratica di base. Non ci sono riuscito».

 
Gli schieramenti politici e le correnti di partito quanto contano nelle elezioni del rettore: per nulla, poco o molto?

«Contano parecchio, con una caratteristica di grande trasversalismo. E non dovrebbe essere così».

 
La politica accademica è migliore o peggiore della politica cittadina?

«In quella accademica ci sono luci e ombre. In quella cittadina, in atto, vedo solo ombre che, ahimé, si riflettono anche nell’Università. Ma non è ineluttabile».

 
Il suo programma di due anni e mezzo fa si intitolava “un’altra università è possibile”. C’è ancora un’area di opinione che fa riferimento a quel programma?

«Non credo alle componenti organizzate in termini partitici. Nel nostro Ateneo, di organizzato oggi c’è solo qualche rete clientelare. Credo invece in un’area programmatica: una serie di realtà che si identifichino in alcuni principi di fondo e abbiano volontà e capacità per creare un luogo di discussione e di iniziativa. Quest’area c’è, anche se, per una molteplicità di cause, frammentata. Dichiaro di volermi impegnare in una rilettura dei processi avvenuti nel nostro Ateneo, proprio per contribuire a costruire o ridefinire i contenuti di un’area programmatica».

 
Che voto, in trentesimi, darebbe al primo triennio del Rettore Recca?

«A differenza della Gelmini, credo poco ai voti espressi in termini numerici. Come ho detto al momento della mia sostituzione nella carica di prorettore, in una lettera aperta, in alcuni campi si sono fatti passi avanti. Il catalogo delle realizzazioni positive è discreto: relazioni sindacali, scelte per il personale tecnico-amministrativo precario, internazionalizzazione, rilievo accordato alla promozione di manifestazioni culturali interfacoltà e a un’apertura verso la città (la felice stagione dei “circuiti culturali” prima maniera), anagrafe della ricerca e catalogo dei saperi, l’inizio di una distribuzione dei fondi di ricerca con parametri legati alla produttività scientifica, la ripresa del lavoro della commissione paritetica per la didattica, l’istituzione della commissione per l’organizzazione e del comitato sul mobbing. Ma non sempre i metodi di gestione sono stati ispirati a una salda capacità di programmazione e a un pieno coinvolgimento delle strutture dell’Ateneo. Ad esempio, l’ultima programmazione triennale non è stata portata al centro dell’attenzione di tutte le strutture, il che avrebbe permesso una riflessione non settoriale sugli interessi dell’Ateneo. C’è, nel complesso, una certa nebulosità sulle scelte strategiche. Un’analisi approfondita meriterebbe lo stato del sistema sanitario universitario. Ma per questo sarebbe opportuno aprire uno spazio specifico, coinvolgendo altri interlocutori, in considerazione dei suoi legami con il sistema regionale e nazionale. Ci sia chiarezza e affermazione piena dell’autonomia dell’Università».

 
A suo parere, oggi, come si fa a stabilire se un Ateneo è “virtuoso”?

«I criteri di cui oggi si parla per la valutazione degli Atenei non mi convincono del tutto. Credo che gli Atenei andrebbero valutati sulla loro capacità di creare le strutture e gli strumenti per raggiungere obiettivi di valenza strategica. Valutare un Ateneo calcolando il numero dei laureati in corso non è insensato, è riduttivo. Ancor più importante è, ad esempio, valutare se si migliorano o no i servizi per gli studenti, le misure per l’attuazione del diritto allo studio, cioè se si creano le condizioni perché un numero sempre maggiore di studenti si laureino in corso. La valutazione dovrebbe mettere in primo piano la realizzazione di strutture e strumenti, ancora, per il potenziamento della ricerca, per l’internazionalizzazione, come le foresterie per docenti e studenti stranieri, le borse di studio per la mobilità. Insomma, mi pare che siamo ancora lontani in Italia dal porre veramente lo studente e, aggiungo, la ricerca al centro dell’Università».

 
L’intervista si chiude qui. L’impressione è che, contrariamente alla notoria scioltezza del suo eloquio, il professor Pioletti abbia riflettuto con accuratezza su ogni singola parola, pronunciata con tono grave. Il bilancio di una vita matrimoniale, per quanto breve, comporta sempre tristezza. Non abbiamo ben compreso se il ricordo del recente passato continui a comportare qualche attimo di nostalgia.


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