Città a prova di terremoto. Si può?

Aeroporto Fontanarossa di Catania, luogo insolito per un’intervista. La prof.ssa Caterina Carocci ci attende al bar. Tra un paio d’ore l’aspetta il volo per far ritorno a Roma, la città dove abita. Dalla Sicilia alla capitale, un viaggio ormai consueto per la professoressa che insegna Restauro alla facoltà di Architettura di Siracusa. “Il professore con cui mi sono laureata, Antonino Giuffrè, mi ha trasmesso la passione per il restauro applicato a fini antisismici – ci racconta –. Trattare il problema della sicurezza insieme con quello della conservazione è importantissimo, soprattutto in Italia, un paese che si connota per un patrimonio storico-culturale su cui si basa una fetta dell’economia importante. All’interno di questo tema mi sono occupata dei centri storici: mi è sempre interessato di più studiare i tessuti delle case che i monumenti, nella convinzione che le case delle gente sono più importanti del più importante monumento”.
 
Prof.ssa Carocci, negli ultimi anni lei ha collaborato con la Protezione Civile nazionale allo studio dei centri storici delle città italiane. Ci spieghi meglio il suo lavoro.
Il consorzio con cui ho lavorato si chiama RELUIS (Rete dei Laboratori Universitari d’Ingegneria Sismica). Questo ha ricevuto l’incarico dalla Protezione Civile nazionale di fare degli studi per divulgare e posizionare nel territorio le indicazioni della nuova normativa in materia sismica del 2003. Ho avuto un finanziamento triennale che si è concluso ad aprile. Mi sono occupata, all’interno di questa grandissima ricerca che ha coinvolto tutte le università italiane, esclusivamente della vulnerabilità degli aggregati edilizi dei centri storici.
 
Qual è il passo successivo di questo studio?
Da queste ricerche universitarie vengono fuori degli indirizzi, linee guida che sono tenute in considerazione da chi deve trasformare queste cose in legge. Nel frattempo però io ho potuto far lavorare sul campo i miei studenti.
 
Questo studio triennale sui centri storici ha interessato anche la città di Catania?
Sì, abbiamo provato ad applicare la nostra metodologia ad un isolato di Catania, tra via Transito e Porta Garibaldi. Un lavoro di indagine approfondito che si conclude con l’evidenziazione delle vulnerabilità tipiche delle case di quest’area.
 
Ha citato la nuova normativa del 2003. Come nasce e che conseguenze ha avuto?
Nel 2002 si verifica il terremoto di San Giuliano di Puglia in cui crolla una scuola e muoiono 25 bambini, in un comune che non era classificato in nessuna zona sismica, e che tuttavia si trovava circondato da altri comuni classificati anche in zona 1. Era una sorta di isola non classificata in mezzo ad un territorio ad alto rischio.
Succede allora una cosa mai accaduta in Italia: sull’onda di questo evento la Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso la Protezione Civile che è la sua diretta emanazione, prende in mano le norme sismiche (fino a quel momento in mano al Ministero dei Lavori Pubblici), in 40 giorni le cambia e vi affianca una nuova classificazione, togliendo la categoria di territorio non classificato, e associando nuove norme tecniche.
 
In seguito a questa nuova normativa sono stati già fatti degli interventi?
È una normativa prestazionale. Cioè dà degli indirizzi, come progettare la casa ad esempio, e poi spetta al singolo (ente, professionista e tecnico) orientarsi e prendere le decisioni.
Nel marzo 2003 vengono dati cinque anni di tempo per le verifiche di sicurezza sulle scuole, così come su tutti gli edifici strategici e critici. Quindi, ad esempio, alla provincia spettava la verifica delle scuole, all’università quella del proprio patrimonio edilizio.
 
Nella nuova classificazione delle città, Catania non ha subito modifiche, rimanendo in seconda categoria.
Non ricordo i dettagli, ma mi sembra che ci sia stata una discussione per metterla in prima categoria. O addirittura si era pensato di creare una categoria intermedia. Solo che questo discorso delle categorie si porta dietro strascichi economici e burocratici. Questi passaggi che dovrebbero rispondere a dei puri criteri scientifici, invece poi sottostanno anche ad altre variabili.
 
Negli ultimi mesi ha lavorato anche a L’Aquila. Che ruolo ha avuto?
La fine del triennio di studio è coincisa con il terremoto. È stata chiesta dunque la disponibilità a tutti i ricercatori che avevano avuto un finanziamento. Io sono andata, insieme a tanti altri, a fare il rilievo dei danni ai beni culturali, alle chiese e ai palazzi. Le squadre erano composte da un universitario, da un tecnico della Sovrintendenza e da un terzo che si occupa di beni immobili. Ho lavorato due mesi ma la fase di censimento non è ancora conclusa. Solo che ora c’è un po’ di stop per il G8.
 
Cioè? I lavori sono stati fermati?
Mi hanno riferito che i vigili del fuoco da un giorno all’altro non possono più fare determinate cose perché la priorità è un’altra, cioè mettere in sicurezza tutti i percorsi dove passeranno le autorità.
Non so come reagiranno gli abitanti de L’Aquila…
 
Il centro storico de L’Aquila è stato distrutto. C’è un modo per salvare le parti più antiche delle nostre città?
Certo che c’è! Il punto è che ci dovrebbe essere un governo della città. Un centro storico non solo può, ma deve continuare a vivere. Ma deve essere aiutato a vivere bene. Lo studio che va fatto è capire lo stato in cui si trova e interpretarne i difetti: se questi attengono al modo in cui è stato costruito o se sono precarietà aggiunte da manomissioni dei secoli successivi. A Catania il tessuto urbano del centro storico è molto grande e di diversa tipologia: c’è un centro storico monumentale, c’è San Cristoforo. Una volta quindi studiati questi tessuti-campione, individuate le vulnerabilità e i danni che ci possiamo aspettare, stiliamo delle indicazioni che diano dei principi. Queste linee guida però non puoi darle in mano al singolo proprietario o all’impresa immobiliare, ma al Comune. Questo deve essere il governo della città. Il comune deve dire al cittadino: vuoi abitare in centro storico? Bene, ma devi rispettare delle regole importanti generali: ad esempio accettare che le stanze siano piccole perché ci sono i muri portanti. Non puoi demolire il muro per fare il salone.
 
Ci sono in Italia modelli positivi di governo della città?
La regione Emilia Romagna ha lavorato per anni su questo tema, facendo piani di recupero che prevedevano uno studio della vulnerabilità sismica a scala urbana. Un altro esempio può essere Ortigia, dove nel 1993 abbiamo fatto un’esperienza che ha fatto scuola, in cui si associava il punto di vista architettonico, cioè la conservazione, a quello ingegneristico.
 
L’ex Monastero dei Benedettini, sede dell’Università, è un esempio virtuoso di conservazione e allo stesso tempo di uso attivo dell’edificio. Pensa sia questa la strada percorribile?
Assolutamente sì se gli interventi fatti per mettere in grado l’edificio di essere usato sono anche interventi che assicurino la resistenza dell’edificio al terremoto. Se vivi nella pianura Padana non hai questi problemi, ma qui non si possono ignorare.
 
È giusto rendere pubblici i risultati delle analisi e dei censimenti sulla vulnerabilità sismica?
In maniera brutale no. Perché servono a favorire strumentalizzazioni non pensate per la gente, ma a fini politici.
 
Come si fa a trovare un punto di equilibrio tra il diritto di sapere dei cittadini e il rischio di creare allarmismo?
Penso che l’informazione sia la prima cosa, ma deve essere costruttiva. Forse dare dei dati senza poter dire «c’è questa situazione e quindi interveniamo» non è costruttivo. Non parlo del giornalista, ma dell’ente che magari può rendere pubblica la ricerca e aggiungere «abbiamo i soldi per fare solo una parte degli interventi, dobbiamo trovare i finanziamenti per realizzare tutto il resto». Così la gente capisce, e poi di seguito può prendere posizione e votare alle successive elezioni, in una società in cui ciascuno è cosciente del proprio ruolo.


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