Si conclude il processo di primo grado, con rito ordinario, scaturito dall'inchiesta del 2013 che ha azzerato la famiglia mafiosa di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano. Tra gli imputati anche Salvatore Faro e Angelo Testa. Assolti in due per la presunta estorsione al noto bar Ottagono di Mascalucia
Fiori bianchi, condanne per quasi un secolo Alla sbarra Alfio Bonnici, cognato boss Magrì
Si conclude il rito ordinario del processo di primo grado scaturito dall’inchiesta antimafia Fiori bianchi. A distanza di quattro anni dall’operazione che ha portato in carcere 77 persone, accusate a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione e concorso esterno a Cosa nostra. L’inchiesta aveva fatto luce sulle ramificazioni e i gruppi operanti sul territorio di Catania e provincia della famiglia dei Santapaola-Ercolano. Le pene più pesanti sono quelle comminate ad Alfio Bonnici (undici anni e otto mesi), cognato del boss Orazio Magrì e ritenuto un affiliato alla cosca del quartiere Civita; Salvatore Faro (undici anni e otto mesi), della fazione dei Nizza di Librino; e Angelo Testa (undici anni e otto mesi), di piazza San Cocimo. Tra gli imputati c’è anche il capomafia Santo Battaglia, già condannato all’ergastolo e ritenuto il responsabile del gruppo del Villaggio Sant’Agata, nonostante da anni sia dietro le sbarre.
Ad accusare Alfio Bonnici sono stati numerosi collaboratori di giustizia. Ex capimafia che hanno indicato l’uomo come uno dei vivandieri delle latitanze di Santo La Causa e Carmelo Puglisi. Tra questi c’è Filippo Santo Pappalardo, un tempo soldato del clan degli Assinnata, alleati nel territorio di Paternò proprio dei Santapaola: «Dal carcere avevano dato l’ordine di massacrarlo di botte perché si comportava male e incontrava il pentito Natale Di Raimondo, di cui era nipote». Su Bonnici ha detto la sua anche Ignazio Barbagallo, anch’egli passato tra le file dei mafiosi che hanno tradito il giuramento a Cosa nostra: «Si occupava di spaccio di marijuana nel quartiere San Paolo (a Gravina, ndr) insieme ad alcuni ragazzi, e della latitanza di Carmelo Puglisi». Una deduzione che Barbagallo avrebbe fatto perché «cambiava in continuazione macchina ed era in contatto con Orazio Magrì, che si è sempre interessato della latitanza».
Nell’impianto accusatorio c’era anche la contestazione di una estorsione, commessa tra maggio e ottobre del 2009, al bar Ottagono di Mascalucia. Presunto reato per cui i due imputati, Bernardo Cammarata e Giuseppe Cesarotti, sono stati assolti dai giudici della quarta sezione penale «per non avere commesso il fatto». Per i magistrati a intascare i soldi sarebbe stato l’ex boss Ignazio Barbagallo con il tramite di Cesarotti, difeso a processo dall’avvocato Salvatore Manna. «Si tratta di una persona ritualmente affiliata che è stato padrino di Aurelio Quattroluni – spiegava ai magistrati La Causa -. Ho saputo di questa estorsione direttamente da Enzo Aiello». Dall’operazione Fiori bianchi è nato anche un processo con rito abbreviato, già arrivato al secondo grado di giudizio. In quel troncone tra gli imputati c’è pure l’ex latitante, recentemente catturato a Viagrande, Andrea Nizza.
Le condanne:
Alfio Amato, 9 anni e 10 mesi di reclusione;
Santo Battaglia, 6 mesi di isolamento diurno a di continuazione con le precedenti condanne all’ergastolo;
Alfio Bonnici, 11 anni e 8 mesi;
Bernardo Cammarata, 3 anni;
Antonino Castorina, 5 anni;
Salvatore Faro, 11 anni e 8 mesi;
Francesco Ferrera, 4 anni;
Francesco Filloramo, 3 anni e 200 euro di multa;
Salvatore Politini, 5 anni e 400 euro di multa (concesse le attenuanti generiche);
Giuseppe Seminara, 7 anni e 2 mesi;
Angelo Testa, 11 anni e 8 mesi;
Salvatore Torrente, 2 anni (attenuanti perché collaboratore di giustizia).