Una storia comune da San Berillo al Bon Pastor «Somiglianze urbane tra Catania e Barcellona»

Distanti più di mille chilometri ma assimilabili nelle loro storie. Sono i quartieri di San Berillo a Catania e di Bon Pastor a Barcellona, che sono stati al centro di un dibattito sul tema delle politiche di trasformazione urbana in occasione della presentazione del libro La città orizzontale. Etnografia di un quartiere ribelle di Barcellona, pubblicato nel 2017 da Napoli Monitor e scritto dall’antropologo Stefano Portelli. L’evento è stato organizzato dall’associazione Trame di quartiere (in collaborazione con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli studi di Catania, Radio lab e l’Ance giovani di Catania) che dal 2005, attraverso attività culturali rivolte all’inclusione sociale e al recupero degli spazi lasciati in stato di abbandono, sta sviluppando diversi progetti legati alla rigenerazione urbana all’interno del vecchio quartiere di San Berillo, nel cuore del centro storico di Catania

«A partire dagli anni ’50 questa parte della città ha rischiato più volte di essere cancellata – afferma il presidente dell’associazione Luca Lo Re – nonostante rappresenti una parte del patrimonio culturale e sociale di Catania». Passato alla storia come lo sventramento di San Berillo, a partire dal febbraio del 1957, l’intero quartiere ha subito una delle più grandi operazioni di abbattimento ed espulsione dei suoi abitanti, nell’ambito di un piano di risanamento urbanistico che ha determinato una ferita, mai sanata, all’interno della città. 

«Quelle demolizioni – prosegue Lo Re – non distrussero solo fisicamente il quartiere, minando la stessa presenza degli abitanti, ma cancellarono anche quel tessuto economico fatto di piccoli artigiani e piccole attività produttive che proprio in quel contesto trovava la sua possibilità di vita. È un processo che deve partire dal basso, coinvolgendo chi usufruisce di quello spazio e chi investe delle risorse in quel territorio. Oggi – conclude Lo Re – una certa visione stigmatizzante che associa al quartiere solo elementi negativi, come spaccio, prostituzione e occupazioni abusive di case». 

Una storia molto simile a quella che, ancora oggi, vivono gli abitanti del quartiere di Bon Pastor a Barcellona, raccontata nel volume di Stefano Portelli. Frutto di un confronto tra abitanti, ricercatori e studiosi di temi urbani, il libro ripercorre la costruzione, la distruzione e la lotta delle casas baratas (case economiche) di questo antico quartiere operaio alla periferia di Barcellona, oggi una delle zone più marginali e sconosciute della città. «Gli abitanti di Bon Pastor hanno deciso di rispondere agli sgomberi con un’azione culturale – racconta Portelli -. Volevano un altro tipo di riabilitazione dello spazio e chiedevano di rimanere nelle loro case». 

Nato negli anni ’20, il quartiere aveva sviluppato una forma urbana molto particolare, con ottocento case costruite, una accanto all’altra, in riva al fiume che, nel corso del tempo, avevano finito per formare un piccolo paese. «Dopo le prime negoziazioni per mandare via gli abitanti, iniziate nel 2003 – prosegue Portelli – si è passati nel 2007 alle prime demolizioni. Oggi metà del quartiere è già stato demolito e sulle ceneri sono nati i nuovi palazzi, in cui sono stati rialloggiati gran parte degli abitanti». Secondo l’antropologo, il trasferimento in una struttura fisica completamente diversa e soprattutto programmata dall’alto ha fatto piazza pulita di un determinato uso dello spazio, modificando anche il rapporto tra gli abitanti. 

«Il quartiere – aggiunge l’autore del libro – dopo aver subito queste scelte che hanno distrutto la struttura sociale che si era costruita in ottanta anni di pacifica convivenza, ha incrementato tutti i conflitti interni, le tensioni etniche, e perfino il consumo di droghe». 

Una trasformazione delle dinamiche urbanistiche che, secondo l’autore, avrebbero modificato anche i flussi elettorali verso gli attuali movimenti politici spagnoli. «Bon Pastor – continua Portelli – era un rione popolato da migranti, venuti dal sud della Spagna, proletari, operai e antifascisti. In quel quartiere, che ha ospitato i miti della resistenza, è nato l’antifranchismo. Dopo aver subito quello stravolgimento urbanistico, il quartiere è slittato a destra». 

Una storia locale diventata testimonianza di una violenza simbolica vissuta dagli stessi abitanti, anche attraverso l’uso di stereotipi negativi, utilizzati per svilirli e per convincerli ad abbandonare le proprie case. «Gli abitanti, oltre a dover pagare affitti carissimi dopo gli sgomberi – spiega Mara Benadusi, antropologa dell’università di Catania – sono stati oggetto di una rappresentazione mediatica che li presentava come zingari, immigrati, criminali e spacciatori. In realtà il quartiere, fin dagli anni ’20, era abitato dal proletariato urbano che andava a lavorare nelle fabbriche». 


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