Clan Scalisi, la lettera del presunto boss dal carcere «Nessuno può permettersi di giudicarvi tranne me»

«Carissimo e stimatissimo fratuzzo mio, prima di tutto e di ogni cosa spero che la presente ti venga a trovare bene unitamente a tutta la tua famiglia e alle persone vicino a te, ok?». Il riferimento alla «famiglia» non è neanche nascosto: esplicito sin dalle prime righe della lettera che il presunto boss Giuseppe Scarvaglieri (classe 1968, detto Pippu ‘u zoppu) avrebbe inviato, dal carcere, ad Alfredo Mannino (classe 1964, noto come ‘u Caliaru). È quest’ultimo a leggere il contenuto della missiva, finita tra le carte dell’inchiesta Illegal duty, a un interlocutore che non è stato identificato: «Prima di tutto – riporta Mannino – Chi può permettersi di giudicare a te e a mio figlioccio Fantozzi? Nessuno». Fantozzi, secondo gli investigatori, sarebbe Pietro Maccarrone (classe 1969). «Voi siete le persone storicamente più vicine alla mia famiglia – continua la lettera – Mi avete dato tanto: tu hai perso un fratello e mio figlioccio è sempre stato devoto alla mia persona. Quindi niente e nessuno può giudicarvi all’infuori del sottoscritto».

I riferimenti alla «famiglia» continuano uno dopo l’altro. «Se c’è qualche individuo che crea confusione – prosegue – a quale titolo? Chi è? Che cosa rappresenta?». Poco dopo, Scarvaglieri comunica a Mannino di avere «dato una carica a mio figlioccio». Scatenando il commento di Mannino che, intercettato, dice: «Ora è diventato suo figlioccio». «Chi si ritiene vicino alla mia famiglia deve rispettare le mie decisioni», avverte il mittente del documento. La lettera continua ancora per qualche riga, fino alla minaccia finale: «Ci tengo pure a dirti – conclude – che chi fa uso e consumo del mio nome per i propri interessi avrà ciò che merita» perché «a me importa solo che si fanno cose buone, con serenità e lealtà».

Questo, però, non è l’unico contenuto intercettato dalle cimici degli investigatori. In un altro passaggio si sente un uomo, che per gli inquirenti è Vincenzo Biondi, ricordare i bei tempi andati. «Una volta si faceva in modo diverso – ricorda Biondi (classe 1977), detto Enzo Trevi – Al tempo dello zio Antonio Scalisi… Quello, bastardo, il giuramento me l’ha fatto fare là dentro», spiega, riferendosi al carcere e al rituale della cerimonia mafiosa d’affiliazione. «Deve essere bello quando è così il giuramento», gli risponde l’anonimo interlocutore. «Proprio». Senza contare i privilegi di cui avrebbe goduto durante la detenzione, grazie al tramite di Pippo Scarvaglieri. «Mi faceva entrare tutto quello che volevo io – aggiunge – “Il pesce come lo vuoi? Che facciamo entrare?”», ricorda.

Altri tempi, insomma. Che lasciano spazio a quelli attuali, in cui bisogna fare i conti con i soldi che non ci sono. O che non verrebbero distribuiti equamente. «Io te lo ripeto – continua Biondi, chiacchierando con un altro – Non sono invidioso. Però lui (non si sa a chi si riferisca, ndr) ha preso per quattro persone. E mi sta bene: te lo giuro su quanto voglio bene a mia figlia. Se non è vero, devo bruciare come una sigaretta». L’altro, a quel punto, replica: «Ma perché tutte queste diversità? Io duecento, Alfredo trecento, quello cinquecento. E io che giro dalla mattina fino alla sera? Duecento euro me li mangio solo di benzina».

Sono i soldi, infine, l’ultimo argomento intercettato dalle forze dell’ordine. Stavolta a parlare è Pietro Maccarrone e il tema, secondo la polizia, è l’attività di recupero crediti per il clan Scalisi. «Iniziamo a recuperarli questi soldi – afferma Maccarrone – Li fa uscire come lavori, hai capito? Anzi, adesso ci chiamiamo. Gli diciamo: “Tu la vuoi bene a tua figlia? Tua figlia vuole restare vedova? Se no, te ne puoi andare anche dalle guardie, perché io gli butto un colpo di pistola“».


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