Mafia, la lettera dal carcere del boss Nitto Santapaola «Sono un lavoratore e ho avuto la vocazione da prete»

«Sono Santapaola Benedetto, non la conosco, sarei onorato se la conoscessi, mi scuso per questo scritto confuso e pieno di errori, causa diabete alto e mal di testa. Nella mia vita gli sbagli più grossi sono stati due». Sono queste le parole che sceglie uno dei boss più sanguinari di Cosa nostra per scrivere una lettera e presentarsi a padre Salvatore Resca, prete della chiesa etnea dei Santi Pietro e Paolo. È il 21 settembre 1993 e Benedetto Santapaola si trova rinchiuso nella casa circondariale Don Bosco di Pisa. La polizia lo ha catturato cinque mesi prima in una masseria nelle campagne di Mazzarone, a 80 chilometri da Catania, dopo una lunga e discussa latitanza.

Nello scritto, composto da tre foglietti a righe, il padrino usa un linguaggio pieno di allusioni per chiarire la vicenda della Pam Car. La concessionaria d’auto Renault inaugurata alla fine degli anni ’70 in compagnia delle massime autorità di Catania. Oggi al posto di quel salone d’auto, che ha comunque segnato la scalata mafiosa di Santapaola, c’è un parco intitolato a Giovanni Falcone, nato dopo una lunga battaglia portata avanti da padre Resca. «Nel 1982 per la paura del carcere sono stato male consigliato e non mi sono presentato alle autorità», scrive il boss riferendosi alla strage della circonvallazione di Palermo, in cui venne ucciso il suo accerimo rivale Alfio Ferlito. «Nel 1984 ho scritto una lettera di protesta contro i giudici di Torino e due giornalisti […] Non l’avessi mai fatto – continua nel testo – mi sono rovinato. I giornalisti possono offendere ma non essere offesi». 

Cercavano un mito e hanno trovato Santapaola

«Ho letto sul Corriere della Sera un articolo firmato da Alfio Sciacca, che dal nome mi sembra essere siciliano, – continua il boss – scrive che padre Resca è un rompiscatole di professione e quando il nome di Santapaola faceva tremare i polsi lui cominciò a sfidarlo». Il caso che viene citato è proprio quello dell’autosalone e Sciacca nel suo pezzo sottolineava come a contribuire a fare sloggiare il boss fosse stato proprio l’intervento del parroco e i suoi continui sit-in di protesta. «Io non mi interessavo della Pam Car, non c’ero mai e mai sono stato presente a una cerimonia d’inaugurazione – sottolinea nella lettera – sono stato sempre un lavoratore e un padre di famiglia. Dopo il 1982 cercavano un mito e hanno trovato Santapaola».

Il boss accusa Sciacca di scrivere «bugie» sulla Pam Car e mette in dubbio anche gli interventi del parroco. Per supportare la sua tesi elenca a don Resca quattro punti, siglati nei fogli con la numerazione romana. Il terreno «era privato e non del Comune» e dentro ci finiva tutta la spazzatura «del rione, invaso da topi e da una mandria di cani randagi e le mamme non potevano fare scendere i bimbi a giocare per paura degli animali e di qualche malattia infettiva ma mi fermo qui per non offendere la mia città, che ci tengo tanto». Subito dopo Santapaola parla della sua famiglia e dei suoi figli. Uno di loro, Vincenzo, oggi si trova detenuto perché ritenuto il successore del padre. Nel 1993 il quadro che viene tratteggiato è diverso: «Da undici anni viviamo nell’inferno, con il mio arresto pensavo finalmente che la mia famiglia poteva godere di un po’ di pace ma mi sono sbagliato. Mia moglie è una santa, ho tre figli che sono dei bravi ragazzi […] hanno tanta voglia di lavorare ma trovano le porte chiuse perché si chiamano Santapaola. Cosa devo fare?», chiede a Resca.

Ho avuto la vocazione di farmi prete

Prima di congedarsi il padrino racconta la sua vita e il rapporto con la chiesa. «Ho frequentato i salesiani e ho avuto la vocazione di farmi prete, ho lavorato in tipografia e sono cresciuto con voi». C’è poi un aneddoto che riguarda la detenzione nell’isola di Pianosa: «Le domeniche viene e passa per tutte le celle un prete e fa recitare il padre nostro e l’ave Maria. La sua voce mi provoca conforto. Io ho sempre avuto devozione per il clero cristiano». «Sconto una pena brutta e Dio è testimone delle mia innocenza […] La prego di non prendere a male queste povere parole, sono senza malignità e nessun rancore. Sono grato se posso avere una risposta. Distinti saluti. Benedetto». 

Invito che però non verrà mai accolto dal prete fondatore dell’associazione Città Insieme. «Quando ho letto il mittente mi sono detto “Vediamo che cosa vuole”. Ma ho deciso di non replicare, nonostante lui mi abbia scritto anche altre lettere», spiega a MeridioNews padre Resca. Il religioso, passati due decenni, racconta anche l’incontro con Carmela Minniti, moglie di Santapaola, uccisa l’1 settembre 1995: «Era seduta nella stessa sedia in cui c’è lei adesso. Dopo una celebrazione è venuta una signora che, mi hanno detto, voleva parlare con me. Mi aspettava nel mio ufficio ed era la moglie di Nitto Santapaola. Mi disse che avevo una concezione negativa del marito, da lei definito come “un bravo ragazzo” che, però, aveva avuto la sfortuna di avere dei cattivi compagni».


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