A Catania si scende in mare contro la nave C-Star «Questo porto chiuso ai fascisti, aperto ai migranti»

«How do you live in Mineo?». «Better than in Libia». «How do you feel?». «Safe, finally». Sul mare non troppo azzurro della Playa di Catania le imbarcazioni della Flotilla cittadina contro la C-Star, la nave del gruppo di estrema destra Generazione identitaria, stendono uno striscione contro il razzismo. Alla spiaggia libera numero 1, sulla terra ferma, tra le bandiere «Open for migrants, closed for fascists», un gruppo di ragazzi del Cara di Mineo passa una giornata al mare. «Come si vive al Cara?». «Meglio che in Libia». «Come ti senti adesso che sei qui?». «Al sicuro, finalmente». Alcuni rimangono in disparte, in tre si avvicinano incuriositi: uno viene dal Senegal e ha 21 anni, un altro viene dal Gambia e di anni ne ha venti, l’ultimo viene dalla Guinea Bissau ed è il più grande di tutti: 27 anni, molto alto, le treccine schiarite fino a diventare bionde si alternano con quelle nerissime. «Perché questa protesta?», chiedono. 

Della C-Star non sanno niente: non sanno che c’è un gruppo che si chiama Generazione identitaria e che ha deciso di aiutare la guardia costiera libica a riportare indietro i migranti. Non sanno che queste persone hanno raccolto oltre un centinaio di migliaia di dollari per noleggiare un’imbarcazione con la quale avviare la campagna di respingimenti Defende Europe. Non sanno che la barca è stata fermata a Cipro perché a bordo c’erano delle persone che pare abbiano pagato per arrivare fino in Europa. Una «fake news», l’hanno definita loro dando una versione diversa e annunciando di avere ripreso la navigazione verso Catania.

In realtà le perplessità rispetto al loro approdo nel porto etneo sono molte. Il sindaco di Catania Enzo Bianco, in una dichiarazione rilasciata a MeridioNews tramite il suo portavoce, dice di avere «già fatto interventi presso le autorità preposte affinché la C-Star non sbarchi qui». La prefettura non ha ricevuto comunicazioni ufficiali di richieste di intervento da parte dell’amministrazione, ma è possibile che una simile richiesta sia stata avanzata direttamente al ministro dell’Interno Marco Minniti. Per qualche altro giorno ancora, però, le acque – almeno in questo senso – dovrebbero mantenersi calme. Un’idea diffusa è che l’imbarcazione del movimento identitario possa sostare al largo del capoluogo etneo ed essere raggiunta, a bordo di mezzi più piccoli, dagli attivisti che per il momento stazionano a Catania in attesa. Un’inchiesta pubblicata da Famiglia cristiana pubblica il nome di Alexander Schleyer, che sarebbe uno degli esperti di navigazione di Generazione identitaria, con un passato da militare e una vicinanza ai gruppi neonazisti. Il suo profilo sui social è blindato: oltre a qualche primo piano, si vede solo una immagine con una ragazza armata e la scritta: «Si vis pacem para bellum». «Se vuoi la pace preparati alla guerra».

«La nave è qui adesso?», domandano ancora i migranti del Cara. «E quando arriva poi a noi che succede?». Loro sono arrivati tutti in nave, salvati al largo della Libia. E tutti hanno una storia da raccontare. Non vogliono dire i propri nomi né essere ripresi, perché si vergognano. Ma hanno voglia di parlare. «Io sto aspettando i documenti, ma al Cara non ci voglio vivere più – comincia il ragazzo senegalese – Vivo in strada, aspetto i documenti, se arrivano». Che lavoro fai? «Vendo cose». Il suo amico gambiano, invece, vive ancora a Mineo. Sbuccia un melone bianco in spiaggia, butta gli scarti in una busta di plastica dove ha gettato, poco prima, anche la cicca della sigaretta che ha finito di fumare. «Sono là da sei mesi – aggiunge – Siamo venuti qui così facciamo il bagno e non stiamo sempre là dentro. Mangiamo cose buone», dice, indicando la frutta fresca. L’ultimo dei tre, il 27enne dalla Guinea Bissau, all’inizio è il più taciturno. Tiene in mano una chitarra. Si scioglie solo quando una ragazza gli dice il suo nome e lui le risponde: «Hai lo stesso nome di mia madre». «Tu no parlare, tu suonare», gli urla il bagnino della spiaggia libera. «Ora, ora», risponde lui. «Suoni la chitarra?». «Sono un professionista – sorride – Non me l’ha insegnato nessuno, ho imparato da solo». Accenna a qualche nota, fa vedere le dita delle mani piene di calli. «La musica tradizionale africana è bella, se mi pagano per suonarla diventa il mio lavoro», continua.

Lui vive al Cara di Mineo da un anno e mezzo. Ha chiesto asilo politico ma non sa neanche a che punto sia la sua pratica. Ma almeno in Sicilia vive meglio che in Libia. «Prima ho fatto tanti mesi su un camion, poi ho passato sei mesi a camminare, quando sono arrivato in Libia venivo tenuto dentro a una casa come se fossi prigioniero». Ha una lunga e spessa cicatrice che gli percorre tutto l’avambraccio. Un’altra subito dietro le orecchie, una sulla schiena. «In Libia me le hanno fatte. Mi hanno tenuto là dentro per un anno prima di farmi partire». Parla di un altro uomo che gli ha salvato la vita, che gli è stato accanto mentre lui stava male per le ferite. «Come un fratello». Dove sia adesso non lo sa. «Io lì non potevo rimanere. Tu vai via perché non stai bene, ti portano in un posto dove devi stare chiuso dentro a una casa e ti fanno le cicatrici, poi viaggi e ti portano qua. Qua non ti trattano bene però sei al sicuro». E lo ripete, di nuovo: «Safe». Se fosse stato rispedito in Libia non sarebbe lo stesso.


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