Cosa nostra in Germania, l’associazione antimafia «Affari tra droga e cibo. Pizzo? Ma solo agli italiani»

Una crescita del 530 per cento in un decennio. È questo l’andamento di Cosa nostra in Germania, almeno in termini di presenza dei propri uomini. Il dato viene fuori da una risposta che il governo di Angela Merkel ha dato alla portavoce dei Verdi, Irene Mihalic, in merito alla diffusione della criminalità organizzata italiana nel territorio tedesco. Dal rapporto, che richiama dati in possesso dell’intelligence, risultano 562 le persone affiliate tra Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e Sacra corona unita.

Se i clan calabresi rimangono quelli maggiormente radicati – 333 esponenti – lo sviluppo maggiore è stato registrato proprio dalla mafia siciliana che dal 2008 a oggi ha visto estendere e potenziare i propri contatti, passando da 20 a 124 membri in rappresentanza di 24 tra famiglie e clan, e con altre 25 persone delle quali è emerso il legame con la criminalità organizzata, anche se non sarebbe chiaro quali siano i gruppi di riferimento in Sicilia. 

Ma per parlare degli affari di Cosa nostra nell’economia più florida d’Europa bisogna spingersi oltre i numeri. I quali peraltro rischiano di ridimensionare un fenomeno che, lontano dalle aule giudiziarie e in maniera sommersa, potrebbe essere ben più esteso. Ne è convinto Sandro Mattioli, presidente di Mafia? Nein danke (Mafia? No grazie), la prima e finora unica associazione antimafia presente in Germania. Di origini italiane, Mattioli da anni si occupa di ciò che fa Cosa nostra a migliaia di chilometri dalla Sicilia, in un Paese che imprudentemente potrebbe essere considerato immune dalle infiltrazioni della criminalità ma che invece, specialmente negli ultimi anni, è diventato un terreno fertile per gli affari illeciti. «L’interrogazione dei Verdi – spiega il presidente dell’associazione a MeridioNews – arriva dopo una conferenza che abbiamo organizzato a luglio e a cui ha preso parte anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Sono numeri di sicuro interesse, ma che secondo me raccontano soltanto parzialmente il fenomeno».

Il convincimento di Mattioli si basa innanzitutto su due numeri: quello dei processi istituiti in Germania e la cifra riguardante le risorse confiscate ai clan. «I procedimenti aperti negli ultimi dieci anni contro persone ritenute legate a Cosa nostra sono 13, mentre sono stati bloccati beni per due milioni e 700 mila euro – continua Mattioli -. Praticamente nulla di rilevante». Uno dei motivi starebbe nella legislazione tedesca che fino a poco tempo fa non prevedeva la possibilità di perseguire qualcuno per il reato di associazione mafiosa. «Soltanto lo scorso mese è stata introdotta una legge che offrirà maggiori possibilità agli inquirenti, ma è ancora presto per vederne gli effetti», sottolinea.

Ciò non toglie che sia possibile parlare di mafia in Germania. «La nostra associazione è nata nel 2007, dopo che alcuni ristoratori italiani che lavoravano qui hanno preso una netta posizione contro Cosa nostra – racconta -. Sentivano di potere rimanere vittime dei pregiudizi di chi associa la nazionalità italiana alla cultura mafiosa». Da allora Mafia? Nein danke di strada ne ha fatta anche se non è facile andare a fondo alle inchieste giudiziarie, considerato che il più delle volte a indagare sono le procure italiane che si trovano a seguire gli affari dei clan all’estero. «Di recente però – tiene a specificare Mattioli – si è verificato anche l’inverso, con un’inchiesta che è partita da qui finendo fino al Sud Italia». I principali interessi della criminalità in Germania si concentrano nella gestione della droga – «anche se spesso gli italiani organizzano il traffico, mentre della vendita si occupano altri» – ma anche nei settori gastronomico, ricettivo ed edile

Nonostante la distanza dalla Sicilia, non mancherebbero i tentativi di esportare le tradizionali pratiche estortive come il pizzo. Anche se si tratterebbe di casi non troppo diffusi. «Dalle informazioni in nostro possesso – sostiene Mattioli – in una zona vicino Francofonte ad alcuni ristoratori sarebbe stata imposta la fornitura delle scatole per il trasporto delle pizze». Le vittime, in tal senso, sono in genere italiane. «È una questione di comunicazione. Per un mafioso sarebbe difficile farsi capire da un tedesco, specialmente – conclude – se consideriamo che questo genere di avvertimenti avviene spesso con linguaggi simbolici». 

A occuparsi degli interessi all’estero delle famiglie mafiose è stata anche la Direzione investigativa antimafia, che nell’ultima relazione semestrale dedica alla Germania un paragrafo. Gli investigatori collegano gli appetiti dei clan da una parte alla relativa vicinanza geografia e dall’altra alla «florida economia locale» che avrebbe favorito «l’insediamento delle cellule mafiose». La presenza della criminalità siciliana va fatta risalire agli anni Ottanta. «Quando le famiglie del mandamento di Niscemi avrebbero inviato in territorio tedesco i cosiddetti reggenti, con il compito di mantenere saldi collegamenti con i clan di origine – si legge nel documento -. Da allora, dopo una prima fase in cui le attività dei mafiosi erano legate esclusivamente ai traffici di droga, di armi e alle rapine, l’escalation criminale si è sempre più caratterizzata per la capacità di infiltrare il sistema produttivo e imprenditoriale attraverso – ribadisce la Dia – l’acquisizione di ristoranti e pizzerie, sovente utilizzati come base per lo stoccaggio degli stupefacenti».

Il fiuto degli affari dei clan sarebbe stato dirottato inoltre verso il cemento. «Recenti evidenze info-investigative testimoniano come la propensione delle famiglie siciliane a investire nel settore edile abbia trovato spazio anche in questo Paese», continua la Dia, citando le province di Enna, Caltanissetta e Agrigento come quelle da cui provengono le persone «riconducibili alla cosiddetta mafia dell’edilizia». Non mancano poi le attività criminali a livello internazionale, come nel caso dell’operazione Matrioska che ha impegnato la guardia di finanza tra Roma e Catania, portando a fare luce su un traffico di contrabbando di prodotti petroliferi che, dopo essere stati prelevati da raffinerie situate non solo in Germania ma anche in Polonia e Austria, «veniva traportato su autoarticolati intestati a società rumene e bulgare, che viaggiavano con documentazione fiscale falsa indicante come località di destinazione finale la Grecia, Malta o Cipro, invece che Catania». 


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