De Silva, ai Benedettini lo scrittore delle nevrosi «Gli avvocati sono i precari di cui nessuno parla»

Un’intervista telefonica può essere snervante. Quando poi l’intervistato si trova su una linea ferroviaria trapuntata di gallerie, lo stomaco si contorce: il tono di Diego De Silva sembrava in effetti oscillare, negli intervalli concessi dalla linea telefonica, tra la noia e il disgusto. Ma poi capisci che la sua è solo una stremata pacatezza. Forse un po’ malinconica. Una pacatezza che sana i nervi. Dopotutto, di nervi almeno i personaggi dei suoi romanzi se ne intendono parecchio. In viaggio per promuovere il suo ultimo libro, Divorziare con stile, Diego De Silva lo presenterà a Catania lunedì 25 settembre alle 18, al Coro di Notte dell’ex monastero dei Benedettini, nell’ambito della rassegna Leggo. Presente indicativo. Autore dei romanzi che hanno per protagonista l’avvocato fallito Vincenzo Malinconico, per Einaudi ha pubblicato anche, tra gli altri, Terapia di coppia per amanti, da cui è tratto il film – con la sceneggiatura dello stesso De Silva – che uscirà nelle sale il 26 ottobre. Ex avvocato napoletano, De Silva si è affermato come scrittore cinico, abrasivo, divertente, nelle cui pagine prendono vita e color di satira le piccole miserie e le nevrosi quotidiane di una generazione che rischia di perdere la presa sulla realtà. Sulla realtà è difficile dire. In questa intervista ci siamo accontentati di non perdere la presa sulla linea del telefono.

Vincenzo Malinconico, il protagonista dei suoi romanzi, è un quasi-avvocato con una quasi-professione, ha affrontato un quasi-divorzio, si è imbarcato in una quasi-relazione. Diego De Silva, questa del quasi- è una sua personale filosofia?
«In realtà no. Io racconto di una specifica fascia di professionisti che da dieci anni a questa parte vive in una condizione di precariato di cui quasi nessuno parla. Gli avvocati oggi hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, e una precarietà professionale non può che tradursi in precarietà sentimentale. Un precariato a tutto tondo, insomma».

Nell’ultimo libro gli avvocati sono definiti addirittura come dei nuovi proletari.
«Sì, e ormai se n’è presa coscienza, se in Operai – il programma Rai di Gad Lerner sulle nuove forme di proletariato in Italia – una puntata era dedicata proprio a loro. Ci sono anche forme di organizzazione, di protesta».

Lei è un ex avvocato. Come mai scelse di studiare Giurisprudenza?
«Non so, avevo le idee confuse quando mi iscrissi. Poi iniziai ad andar bene agli esami, e un po’ per inerzia ho continuato fino alla laurea e col praticantato. Quando sono arrivato a lavorare in tribunale ho capito che quello che volevo fare era scrivere. L’avevo sempre voluto in realtà, ma mi ci sono messo sul serio solo a trent’anni. Fu un periodo nevrotico, la mattina passata in tribunale e il pomeriggio a scrivere, a distruggere quello che avevo fatto poche ore prima».

Mi ha incuriosito il modo in cui una volta ha definito il suo rapporto conflittuale col linguaggio giuridico. Non ricordo se parlasse proprio di prostituzione della parola, ma…
«No, non credo di aver usato proprio il termine prostituzione, non voglio essere offensivo, ma il senso era certamente quello. L’avvocato utilizza la lingua piegandola per raggiungere uno scopo, che è vincere la causa. La letteratura è l’opposto, non ha scopo, non ha utile. La sua lingua è sregolata e anarchica».

E crede di essere riuscito a eliminare le incrostazioni dell’avvocatura dalla sua lingua?
«Sì, essendomene allontanato nella pratica quotidiana sì».

Allontaniamocene dunque anche noi e torniamo alla letteratura. Lei è stato elogiato per aver creato un personaggio seriale senza ricorrere alla formula del giallo che invade i nostri scaffali. Eppure il suo ultimo libro, Divorziare con stile, ricorda in certi tratti il legal drama americano. Malinconico potrebbe essere in qualche modo anche un quasi-detective?
«Un romanzo deve sempre creare un’attesa, deve promettere per tenere viva l’attenzione del lettore, ma non per questo è un giallo. (Cade la linea. Torna la linea) Pronto? Dov’eravamo rimasti?»

All’attenzione.
«Ah, sì. Io mi rendo conto che il mio caso è anomalo: Malinconico è il contrario di un detective. Spesso non arriva neanche all’udienza, le cose si risolvono prima. Malinconico non è un vincente».

Mentre il detective ha il compito di ristabilire un ordine.
«Esatto, a meno che non si tratti di casi come quelli di Simenon, in cui l’importante non è scoprire il colpevole ma indagare le risonanze psicologiche del delitto sui personaggi. Per questo mi piace molto».

E infatti grande rilievo nei romanzi hanno i pensieri di Malinconico. Pensieri nevrotici sul mondo affidati a una scrittura nevrotica. Qual è il suo rapporto con la psicanalisi?
«Ah, nessuno. Non la pratico e non la conosco davvero. Però scavo nelle contraddizioni del personaggio: lo scrittore si occupa di questo, del disordine, del garbuglio. Il mio uso della psicanalisi è rozzo e imperfetto, abusivo direi».

Parliamo della sua scrittura. Ha un ritmo vivace già molto vicino a quello della sceneggiatura. Lei d’altra parte è anche sceneggiatore. Le riesce facile passare da un linguaggio all’altro?
«Beh, il romanzo pone dei problemi retorici che una sceneggiatura non ha. Lì la parola scompare dietro la resa scenica, mentre un romanzo vive solo della parola. I dialoghi devo dire che mi vengono naturali, per un film come per un libro. Un dialogo deve restituire l’immediatezza del discorso, deve adattarsi al personaggio. Per questo difficilmente inserirei un congiuntivo in un dialogo. Devi scrivere l’opera… (Cade di nuovo la linea. Torna di nuovo la linea). Pronto? Pronto?»

Sì, pronto. Parlavamo di dialoghi. Dunque, ambientazione… Una domanda a bruciapelo: Napoli o Italia?
«Ecco, mi piace che nei miei libri si senta che sono un uomo del sud, ma non voglio confinare ciò che scrivo a un determinato ambiente, al territorio. Napoli produce molti scrittori che la sanno raccontare, ma io credo che una descrizione troppo dettagliata confini l’immaginazione del lettore, la sua possibilità di identificarsi. Per lasciarlo libero io lascio le mie descrizioni volontariamente imprecise, ibride. Pronto?»

Pronto? Eccoci: come definirebbe la comicità dei suoi libri?
«Non saprei dare una definizione… Trovo comico poter dire qualcosa di sbilenco sulla realtà. La comicità è anche un fatto intellettuale, aderire alla prospettiva dell’altro».

Una prospettiva disincantata in questo caso.
«Sì, Vincenzo Malinconico tende a vedere tutto ridicolo, sé e il mondo. Non guarda dall’alto in basso, questo è il bello. Fa parte della scena ridicola che mette in campo. È sempre corresponsabile».

Quanto sa di Vincenzo Malinconico? Lei è uno di quegli scrittori che hanno bisogno di conoscere tutto sul passato dei propri personaggi?
«No, non credo sia importante avere in mente tutta la sua biografia».

E sul suo futuro cosa sa dirci?
«Ah… Sicuramente tornerà. Non subito, ho intenzione di farlo riposare per un po’. Se non lo stresso, quando torna sta meglio, è più spontaneo. Aspetto che sia lui a farmi sapere quando avrà qualcosa da dire. Nel frattempo mi dedico a un altro progetto, un altro libro. Penso che uscirà nel 2018, ma ancora è troppo presto per parlarne».

Le è mai venuto in mente che potrebbe venirle a noia Vincenzo Malinconico? Che le venga la tentazione di sbarazzarsene, che proverà a ucciderlo come fece invano Conan Doyle con Sherlock Holmes?
«Non ci ho pensato, ma chissà. Potrebbe succedere. Non tanto se il personaggio ti annoia, credo, quanto piuttosto se ti fagocita, se inizia a farti il verso, in falsetto. Quando sai già cosa succederà. Il bello dello scrivere è non sapere. È per questo che quando lavoro a un romanzo non faccio scalette, ma parto da un’idea e costruisco il resto abbastanza spontaneamente».

Pare che Flaubert abbia detto: «Madame Bovary, c’est moi». E Vincenzo Malinconico, c’est toi?
«Solo nelle parti migliori».

E le peggiori, da dove vengono?
«Hanno delle fonti… Ma cerchiamo di occultarle». (Cade la linea, per l’ultima volta)


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