«Ucciso perché faceva il suo mestiere»

A quindici anni dall’assassinio del penalista catanese Serafino Famà, le facoltà di Lettere e Lingue decidono di ricordare un delitto troppo spesso dimenticato. Alle 16 di martedì 9 novembre, l’aula A2 dell’ex Monastero dei Benedettini di Catania ospiterà un incontro dal titolo “Il singolo davanti alla violenza mafiosa”, interamente dedicato alla figura dell’avvocato ammazzato perché faceva troppo bene il suo lavoro.

Eppure, lui i mafiosi non li accusava, li difendeva. Però, dando il giusto consiglio ad un suo assistito, ha aiutato a confermare la colpevolezza di un imputato, firmando così la propria condanna a morte, per mano dei sicari di Giuseppe Di Giacomo, del clan Laudani.

Sono le 21 del 9 novembre 1995: all’angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono e uccidono l’avvocato Serafino Famà. Lui e il collega Michele Ragonese sono appena usciti dallo studio poco distante e stanno raggiungendo la macchina posteggiata in piazzale Sanzio, pronti a tornare a casa. Poi gli spari, Famà si accascia al suolo, è ancora vivo ma per poco. Alle 21.20, al suo arrivo in ambulanza al Pronto Soccorso dell’ospedale Garibaldi, ha già smesso di respirare.

Per un anno e mezzo le indagini su quel delitto non portano a nessuna soluzione, fino al 6 marzo 1997, data in cui Alfio Giuffrida, affiliato e reggente del clan mafioso Laudani, manifesta la sua intenzione di collaborare con la giustizia. Le parole del pentito dipanano una matassa che, altrimenti, per gli inquirenti sarebbe stato difficile sbrogliare.

Secondo i PM Ignazio Fonzo e Agata Santonocito, il mandante, dal carcere, è Giuseppe Di Giacomo (reggente del clan Laudani), gli esecutori materiali sono Salvatore Catti e Salvatore Torrisi, mentre lo stesso Giuffrida e Fulvio Amante osservano la scena da un’automobile. Il 16 marzo del 1998 il GUP del Tribunale di Catania dispone il rinvio a giudizio per loro e per altre quattro persone, accusate di omicidio volontario pluriaggravato, porto e detenzione illegali di arma da fuoco e ricettazione.

Il movente dell’omicidio è semplice: «Gli ha fregato i soldi…», dice il boss Di Giacomo al cognato Matteo Di Mauro, durante uno dei loro colloqui all’interno della casa circondariale di Firenze. Il soggetto, però, non è Serafino Famà, bensì l’avvocato Tommaso Bonfiglio, legale Di Giacomo, dal quale avrebbe ottenuto tra i duecento e i duecentocinquanta milioni di lire con la promessa di immediata scarcerazione, non avvenuta. Ma colpire Bonfiglio sarebbe stato un azzardo, avrebbe aggravato la situazione di Di Giacomo: il contrordine arriva pochi giorni dopo. Di Mauro comunica a Giuffrida «di lasciar perdere l’avvocato Bonfiglio, ma di fare l’avvocato Famà». Perché Famà?

Le ragioni di questa scelta sono da ricercarsi in un procedimento di alcuni anni prima: Di Giacomo era stato arrestato mentre si trovava a letto con Stella Corrado, moglie di suo cognato Matteo Di Mauro. L’infedeltà di Di Giacomo e della Corrado avrebbe potuto causare pesanti problemi all’interno del clan, qualora fosse stata resa pubblica. Di Giacomo aveva programmato l’omicidio della Corrado, ma era stato arrestato prima di poterlo portare a compimento; a quel punto ha sperato che la sua amante lo scagionasse durante una deposizione che avrebbe dovuto rendere al Tribunale di Catania in un processo a carico di Di Mauro, difeso dall’avvocato Famà. Ma Famà aveva consigliato alla donna di astenersi dal fare qualunque dichiarazione, e lei aveva accettato il consiglio del legale.

 Nella sentenza sull’omicidio Famà, si legge: «Di Giacomo si lamentava dell’arresto subìto, che riteneva ingiusto anche per le modalità con cui era stato eseguito, e contava molto sulle dichiarazioni di Stella Corrado per dimostrare la sua innocenza». E ancora: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all’intervento dell’avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo (cioè la scarcerazione, ndr)».

Cominciano gli appostamenti, vengono coinvolti altri membri del clan. Si trovano in una stalla ad Aci Bonaccorsi quando Gaetano Gangi e Mario Basile comunicano che Famà è chiuso nello studio, e ci rimarrà probabilmente il tempo necessario perché lo raggiungano e gli tendano l’agguato. Nel giro di poche ore, Serafino Famà è una vittima della mafia. I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà».

Di Mauro, Di Giacomo, gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all’ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.


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