Parla la madre di Giordana, uccisa dall’ex compagno «Le vittime non restino un numero in una statistica»

Sorelle di sangue. È questo il nome che si sono date 25 madri di vittime di femminicidio in tutta Italia. «Ci stiamo unendo per chiedere alle istituzioni di garantire qualcosa ai bambini che rimangono quando non ci saremo più noi a prenderci cura di loro». A raccontare a MeridioNews la fase embrionale di questo gruppo è Vera Squatrito, madre di Giordana Di Stefano. La giovane, uccisa a 20 anni con oltre 40 coltellate il 6 ottobre 2015 in via Mompeluso nelle campagne del Comune di Nicolosi dall’ex fidanzato Luca Priolo, condannato a trent’anni di carcere lo scorso 7 novembre. Dalla complicata relazione fra i due, naufragata molto presto, era nata una bambina che adesso ha sei anni e che è stata affidata alla famiglia di origine di Giordana. 

Vera è una nonna giovane ed è lei a provvedere a tutte le necessità della nipote, sia dal punto di vista economico che psicologico. «Le famiglie distrutte da un femminicidio vengono dimenticate completamente dalle istituzioni – lamenta – A parte un primo periodo in cui viene fornito un supporto psicologico che poi va sempre di più a scemare nel tempo fino a perdersi del tutto. Non esiste un servizio di assistenza continua da parte delle Asl». Le terapie sono fondamentali per il nucleo familiare che rimane e che si deve ricostruire anche dopo la fine di un procedimento giudiziario che, fino al giorno della sentenza conclusiva, è il motivo per andare avanti. «Molti di noi sono costretti – spiega – a pagare di tasca propria le cure necessarie. Anche perché ci ritroviamo bambini da crescere che hanno già problemi importanti e, se vogliamo che crescano tranquilli, dobbiamo garantire loro un clima di serenità. Per questo siamo noi genitori, fratelli e sorelle delle vittime ad avere bisogno di aiuto per rimettere insieme i pezzi di tutta una famiglia che viene distrutta».

Per quanto possa sembrare incredibile, non esiste un supporto economico per i figli che restano orfani dopo un femminicidio. «Siamo abbandonati anche sotto questo aspetto che non si deve leggere solo dal punto di vista materiale, perché rischia di compromettere – precisa – anche la qualità della vita che riusciamo a garantire ai nostri bambini». Sono molti i casi in cui le famiglie di origine non riescono a provvedere economicamente ai bisogni dei bambini che, per questo, sono costretti a subire l’ulteriore trauma di essere allontanati da quello che rimane del loro nucleo affettivo per trasferirsi in comunità. «Io mi chiedo – nota Vera – perché non si pensa a prevedere un fondo da stanziare alle famiglie di origine che non hanno la possibilità di mantenere gli orfani invece che trovare la soluzione in uno sradicamento definitivo che, comunque, comporta degli oneri economici da parte delle istituzioni». 

Intanto 75mila firme sono state raccolte per la garanzia della pena certa, per escludere la possibilità del rito abbreviato e la tutela dei minori. Sono questi i motivi che spingono le Sorelle di sangue a condividere il dolore e trasformarlo in azioni concrete. «Ognuno vive il dolore in maniera diversa ed è talmente personale che spesso non arriva agli altri – afferma Vera – per questo forse gridarlo tutte insieme farà in modo che non resti inascoltato. Ognuno non pensa più solo alla propria vittima ma insieme facciamo in modo che non restino più numeri dentro a statistiche». Da un gruppo nato su Facebook circa tre mesi fa, adesso supportate dai loro rispettivi legali, portano avanti insieme le proprie battaglie che non restano più personali. E il progetto a breve termine è quello di incontrarsi a Roma per continuare a progettare insieme.  

«Dobbiamo partire dall’educazione degli uomini come forma di prevenzione della violenza contro le donne, perché – dice usando un linguaggio crudo – gli uomini violenti sono come il cancro, se te ne accorgi per tempo lo puoi combattere». È anche per questo che Vera si dedica soprattutto alla formazione dei più giovani all’interno delle scuole «per tornare a ragionare soprattutto su amore e rispetto». Altra cosa sono le iniziative pubbliche più evidenti «come per esempio le panchine rosse per sensibilizzare anche le istituzioni locali a mettere in atto percorsi a servizio delle vittime e delle loro famiglie».


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