Famà, un delitto da non dimenticare

«Quando non si parla di mafia è il momento in cui questa è più forte. Dicevo spesso che la mafia era solo a Palermo, che a Catania non esisteva e si viveva tranquilli. Mi sono dovuta ricredere sulla mia pelle. Parlare di mafia è la vera rivoluzione». Chi parla è Flavia, figlia di Serafino Famà, avvocato penalista assassinato nel 1995  a Catania per mano di quei mafiosi a cui aveva detto di no. Famà in tribunale mafiosi li difendeva, ma non si piegava al loro codice. Per questo fu freddato in una notte di quindici anni fa, appena uscito dal suo studio legale in viale Raffaele Sanzio.

È la prima volta che in un’aula universitaria entra il ricordo dell’avvocato Famà, perché la memoria delle vittime diventi memoria pubblica da consegnare alle nuove generazioni. È questo il senso dell’incontro tenutosi martedì al Monastero dei Benedettini: “Il singolo davanti alla violenza mafiosa. Ricordo dell’avvocato Serafino Famà a quindici anni dal suo assassinio”, patrocinato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia e di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania. A intervenire sono Ignazio Fonzo, procuratore della Repubblica aggiunto presso il Tribunale di Agrigento, Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea (Università di Catania), Viviana Matrangola, responsabile del settore “Memoria internazionale” di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Rosanna Scopelliti, presidente della Fondazione “Antonino Scopelliti” e Flavia Famà.

La grande scritta “lex” in un’aula di tribunale siamo abituati a vederla alle spalle di un magistrato, di colui che rappresenta l’ago di quella bilancia. Il nostro Paese ne ha visti e ne vede tanti quotidianamente di magistrati coraggiosi, di quelli per cui non trovi più il confine tra l’uomo e la toga. Serafino Famà invece era un avvocato, un penalista, quella categoria che si sa, cura un interesse di parte. Ma Famà nelle aule di tribunale di Catania ci entrava ogni giorno, quella bilancia e quella scritta le aveva di fronte anche lui, e sapeva che “la difesa è un diritto inviolabile e che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti”, come recita l’art. 24 della nostra Costituzione. Tutti, anche i mafiosi. L’importante è «fare il proprio mestiere con coraggio e onestà», ripeteva l’avvocato alla figlia Flavia. E lui lo faceva, da 30 anni.

«Perché commemorare Famà qui all’università? Per riparare alla smemoratezza della nostra città, e perché il bisogno di ricordare corrisponde a quello di ricostruire e capire». Sono le parole di Luciano Granozzi, docente di Storia contemporanea dell’Università di Catania, che ha introdotto il dibattito ricostruendo il rapporto tra l’opinione pubblica catanese e la mafia: all’ignoranza del fenomeno (perfino dopo l’assassinio di Calderone del 1978 e la guerra di mafia che ne seguì) è seguita una fase di incredulità e scetticismo, anche di fronte alla denuncia pubblica di Giuseppe Fava sul “Giornale del Sud”. «Dopo il delitto Fava – ha continuato Granozzi –  l’esistenza della mafia a Catania non può essere più negata in buona fede. Ma si è ben lungi da un atteggiamento di vigilanza etico-politica. Prevarrà piuttosto la rassicurazione». Tra il delitto Fava e l’omicidio Famà passano dodici anni, in mezzo ai quali ci sono le stragi e gli arresti eccellenti, da Riina a Santapaola. E l’omicidio Famà è tra i segni di «una svolta di stampo terroristico che ebbe luogo anche a Catania». Una svolta che ha tra i suoi protagonisti i “mussi di ficurinia” (clan Laudani), dai cui appunto è venuto l’ordine di uccidere Famà. «Cos’è un avvocato? – ha concluso Granozzi, riferendosi al modo in cui Famà intendeva il proprio mestiere – soprattutto quando difende dei boss mafiosi? E’ l’avamposto della legalità in terra straniera».

A ricostruire il processo, carte alla mano, è stato il dott. Ignazio Fonzo, che fu pm nella fase delle indagini, in primo grado e nel processo d’Appello contro Giuseppe di Giacomo, mandante dell’omicidio e oggi collaboratore di giustizia. Ripercorre l’excursus giudiziario spiegando quanto siano tortuose e inconsistenti le logiche del sistema mafioso: Serafino Famà non aveva acconsentito alla deposizione di una sua assistita al processo che vedeva coinvolto Di Giacomo, e per questo fu condannato a morte.

Cambiano i toni quando si abbandona la sfera civile per affidare ai ricordi dei familiari delle vittime il ritratto della persona, non più del professionista, ma del padre. E di altri uomini e donne uccisi dalla mafia. A ricordare sono Rosanna Scopelliti, Viviana Matrangola e Flavia Famà.

«Non è possibile dopo vent’anni stare a pietire giustizia per un servitore dello Stato» dice Rosanna, figlia di Antonino Scopelliti. Il magistrato, ucciso in Calabria nel ’91, si preparava a rigettare i ricorsi per Cassazione presentati dalle difese dei più pericolosi esponenti mafiosi condannati  nel primo Maxiprocesso a Cosa Nostra. «Non è ancora stato riconosciuto vittima di mafia, ricorda, e questo silenzio mi ha fatto scappare dalla Calabria perché ritenevo che quella terra non meritasse il sacrificio di mio padre». Solo quando Rosanna si rende conto che la Calabria è ancora diposta a lottare, decide di tornare. “Adesso ammazzateci tutti” scrivono su uno striscione i ragazzi presenti ai funerali di Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria, ucciso dalla ‘Ndrangheta nel 2005. «Se non avessi lottato con quei ragazzi, mio padre sarebbe morto di nuovo» ricorda con lo sguardo opaco di chi trattiene le lacrime.

Viviana Matrangola è la responsabile del settore “Memoria internazionale” di Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie. La madre Renata Fonte, assessore al Comune di Nardò (Lecce), si era opposta con forza alla speculazione edilizia che minacciava la terra che amava, la Puglia, e non fece ritorno a casa dopo un consiglio comunale dell’84, quando fu assassinata per mano mafiosa. «Mia madre non mi ha lasciato un’eredità di paura, ma la voglia di cambiare le cose, dobbiamo solo avere più coraggio».

A intrecciare i percorsi di queste ragazze è stato un esempio pagato con la vita, una testimonianza di coraggio e onestà che adesso i figli vogliono solo proteggere per impedire che il tempo possa sbiadirle, e che costituiscono un’eredità per la società intera. «Ci siamo trovate unite nella rabbia per l’indifferenza, per quel silenzio che dilaga quando tornati a casa si è lasciati soli», dice Rosanna Scopelliti.

“Libera” è l’associazione fondata nel ’95 da don Luigi Ciotti per promuovere legalità e giustizia e oggi riunisce oltre 500 famiglie: «Ogni anno, il 21 marzo, sfiliamo a Roma in silenzio, ascoltando i nomi delle vittime della mafia che sono più di 900», raccontano.

Non voleva avere nulla a che fare con la memoria neanche Flavia Famà: «Non ero ancora  pronta dopo la morte di mio padre. Sono state le parole di Rita Borsellino che a Roma ricordava il fratello proprio per “Libera”, a farmi cambiare idea. Il nostro è un percorso doloroso, ma solo la cultura può salvarci. Quando i giovani le negheranno il consenso, la mafia cesserà di esistere» dice con forza. Ringrazia inoltre il questore di Catania, Domenico Pinzello, perché «la presenza delle istituzioni in momenti come questo e non solo quando l’emozione ci sovrasta, è fondamentale per una politica sana e trasparente» aggiunge Flavia.

Il dibattito ha visto poi diversi interventi: dagli avvocati Enzo Trantino e Carmelo Passanisi a Elena Fava, da Nadia Furnari dell’associazione Rita Atria a Aldo Pecora di “Ammazzateci tutti”.


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