Factchecking. What?

Il giornalista, lo diceva proprio al Festival del Giornalismo Marco Pratellesi, «è colui che racconta la notizia, ma la verifica anche». Verificare i fatti significa che prima di scrivere una cosa cerchi conferme, in maniera tale da non raccontare cose non vere, falsità senza né capo né coda. E se non lo fai tu, giornalista che scrive il pezzo, lo fanno i tuoi colleghi. Tipo, a Der Spiegel ci sono settanta «documentation journalists», racconta Hauke Janssen, che in quel giornale ci lavora e sa bene come funziona il «DIGAS», l’archivio del Der Spiegel, «accessibile sia agli archivisti sia ai reporter, all’interno del quale vengono inseriti circa 60.000 articoli ogni settimana, tutti divisi per temi e aree di competenza, tutti strettamente controllati, affinché siano una solida base di ricerca».

Si chiama «factchecking» ed è quello di cui si è parlato durante l’incontro “Il giornalismo che si ferma ai fatti”, a Perugia. Cosa succederebbe se Der Spiegel non verificasse più i fatti che racconta?
«Non potrebbe accadere», spiega Janssen, «perché la testata ha costruito la sua credibilità grazie all’altissimo impegno nella verifica delle notizie che dà».

Non tutti i giornali, però, possono permettersi di pagare settanta persone che si occupino soltanto di controllare gli articoli altrui. Ed è per dare una mano al lettore inconsapevole che è nato PolitiFact.com, negli USA, il portale all’interno del quale vengono analizzate le percentuali di veridicità delle affermazioni dei politici statunitensi. Lo dice Bill Adair, che PolitiFact l’ha fondato nel 2007, «per verificare quante falsità dicessero i candidati alle elezioni americane e aiutare gli elettori a scegliere in base alle menzogne o alle verità che venivano loro raccontate».

Il tentativo di rifare PolitiFact in Italia è opera di Sergio Maistrello e si chiama FactCheck, e per il momento è soltanto un esperimento, niente che abbia la risonanza della rubrica “Notizie che non lo erano” che Luca Sofri, direttore di Il Post, tiene sulla Gazzetta dello Sport. «Quando mi si chiese di smontare le false notizie una volta a settimana io pensai che era impossibile», argomenta Sofri, «adesso potrei farlo anche tutti i giorni. Cominciai con quella storia di Bush e dell’orologio: Bush era in visita in Albania e i giornali pubblicarono delle foto del suo avambraccio. Prima di aver stretto la mano agli albanesi, aveva un orologio, subito dopo non più. I giornali titolarono tutti con questa storia. Pochi giorni dopo vennero fuori alcuni video in cui si vedeva che Bush si toglieva l’orologio e lo metteva in tasca subito prima di avvicinarsi al pubblico. Il che è ancora più ridicolo».

Imprecisioni di questo genere «hanno fatto sì che io perdessi quasi completamente la fiducia nei giornali italiani: non c’è niente che io legga là sopra su cui metterei la mano sul fuoco», continua Sofri, che aggiunge, da direttore: «Anche sul Post abbiamo commesso errori, ma perché fare factchecking è quasi voler svuotare il mare con un secchiello. Nei giornali italiani si rincorre il sensazionalismo, ma si perde la plausibilità».


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Chi controlla i fatti che ci raccontano i giornali? Chi si occupa di verificare la veridicità delle informazioni contenute negli articoli? In Germania “Der Spiegel” paga settanta giornalisti specializzati in questo tipo di controllo. E in Italia? Al Festival del Giornalismo di Perugia se ne è discusso. E la situazione non è confortante

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