Iblis, in Cassazione il patto tra mafia e colletti bianchi Storia dei quasi 3000 giorni dell’inchiesta del diavolo

Il maxi-processo che ha messo sullo stesso piano mafia, politica e mondo imprenditoriale arriva in Cassazione per l’atto finale. Iblis, dal nome del diavolo in lingua araba, è l’inchiesta che ha tolto il velo sulle collusioni tra gli uomini delle istituzioni e i boss della famiglia mafiosa dei Santapaola-Ercolano. Dalla prima udienza, il 13 gennaio 2012, sono passati 2287 giorni. Quasi tremila dal blitz. In mezzo c’è una storia giudiziaria partita con i 48 arresti effettuati dal Ros dei carabinieri il 3 novembre 2010 e poi proseguita tra i colpi di scena. Sul banco degli imputati c’è un vero e proprio sistema, inquadrato dai pubblici ministeri Antonino Fanara e Agata Santonocito con una frase simbolo, utilizzata per aprire la requisitoria del processo di primo grado: «Ma la mafia era, ed è, altra cosa». Parafrasando lo scrittore Leonardo Sciascia per descrivere un’indagine che ha avuto nell’ex presidente della Regione Raffaele Lombardo il suo interprete più illustre, caduto in disgrazia nel momento di massimo splendore tanto da arrivare alle dimissioni alla fine di luglio 2012. Insieme, nei corridoi del palazzo di giustizia, al fratello Angelo, un tempo parlamentare autonomista; all’uomo della mortadella alla camera dei deputati Nino Strano; agli ex inquilini di palazzo dei Normanni Fausto Fagone e Giovanni Cristaudo e a un piccolo drappello di amministratori locali di Palagonia e Ramacca. Ma i giudici ermellini si occuperanno soltanto di alcuni di loro. Perché Iblis negli anni è stato diviso in otto procedimenti ognuno con vita propria. Passati da richieste d’archiviazione, falsi mandati d’arresto, imputazioni coatte, processi iniziati e poi interrotti, ricusazioni di giudici e collegi che si dichiarano incompatibili ad affrontare le udienze. 

Un’inchiesta non solo catanese. Perché gli affari ripercorsi dall’accusa, in una requisitoria che nel processo di primo grado è durata otto udienze, si estendono fino alla provincia di Trapani e agli intrecci nel settore delle energie alternative. Il 16 gennaio 2014, solo per fare un esempio, sul banco dei testimoni finisce addirittura Vito Nicastri. Oggi agli arresti perché ritenuto l’uomo ombra del super latitante Matteo Messina Denaro. «Non lo conosco», rispondeva ai magistrati che lo avevano convocato da Alcamo per chiarire i rapporti con alcuni imprenditori etnei nella costruzione del parco eolico di Enna. A partire dalla mattina di oggi i giudici ermellini sono alle prese con i ricorsi dei legali di Vincenzo Santapaola. Il figlio del capomafia Nitto individuato dall’accusa come il successore del padre, ma mai finito in un solo brogliaccio di intercettazioni telefoniche registrate dal Ros. Lui è anche l’ultimo degli arrestati in Iblis, finito in manette il 3 marzo 2012 dopo che proprio la Cassazione aveva riconfermato la misura cautelare in carcere annullata in un primo momento dal tribunale del Riesame. Il presunto boss segue tutte le udienze collegato in video conferenza dal carcere di Rebibbia, a Roma. E a non perdersi nemmeno un appuntamento nell’aula bunker etnea è anche la moglie Vincenza Nauta. «Una persona splendida che ha sofferto», sono i termini che usa la donna per descrivere il marito. Parole che fanno da contraltare alle pesanti accuse che gli muove, tra gli altri, il collaboratore di giustizia Santo La Causa. Se c’è una costante in questa lunga vicenda sono proprio i pentiti. Arrivati uno dopo l’altro, ognuno con storie diverse. L’ultimo, anche se mai ufficialmente rientrato in questa categoria, è Rosario Di Dio. Autoaccusatosi di essere stato il garante di un presunto patto tra il defunto reggente mafioso Angelo Santapaola e i fratelli Angelo e Raffaele Lombardo. Il nome degli autonomisti era già finito anche in alcune vecchie intercettazioni ambientali in cui Di Dio, titolare di una stazione di servizio sulla Catania-Gela, raccontava di presunti incontri nel suo distributore: «È venuto qua la sera prima delle elezioni e si è mangiato otto sigarette», diceva riferendosi all’ormai ex governatore regionale.

L’inchiesta e i suoi tronconi
In corte di Cassazione oggi finisce soltanto il filone che riguarda gli imputati, in tutto 24, che avevano scelto il rito ordinario. Gli altri, 28 persone, sono già passati da Roma con il procedimento in abbreviato, in parte conclusosi con le condanne del 9 giugno 2016. A restare fuori, con la scelta di rinviare a una nuova sezione della corte d’Appello, l’ex deputato Giovanni Cristaudo. Geometra, per tre legislature deputato all’Assemblea regionale siciliana, l’ultima volta era stato eletto nel 2008 con il Popolo delle libertà. Il politico catanese era finito assolto nel processo di primo grado e poi condannato a cinque anni in secondo. Nella sua condotta, scrivevano i giudici della terza sezione etnea, si sarebbe concretizzato il patto tra mafia e politica, grazie al «mercimonio della sua attività istituzionale». A pesare sulla sua posizione c’è la vicenda legata alla realizzazione del centro commerciale Centro Sicilia, in contrada Tenutella. Uno degli affari che rappresentano il cuore dell’inchiesta Iblis e che portò a una profonda spaccatura all’interno della famiglia mafiosa catanese. Da un lato i Santapaola e dall’altro gli Ercolano, forti dell’intransigenza dello storico capomafia Pippo, anch’egli coinvolto nel blitz ma poi deceduto dopo una lunga malattia all’età di 76 anni. La frammentazione di questo processo però non è finita qui: c’è poi il filone separato della politica, che è anche quello che ha riservato i più grossi colpi di scena.

I Lombardo e la politica
I fratelli autonomisti vengono inizialmente accusati dalla procura di Catania di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Due mesi dopo la chiusura delle indagini, aprile 2011, passato il pensionamento del procuratore Vincenzo D’Agata, da piazza Giovanni Verga arriva la decisione di stralciare la loro posizione. Il magistrato facente funzione Michelangelo Patanè e l’aggiunto, oggi a capo della procura etnea, Carmelo Zuccaro chiedono l’archiviazione. La tensione è alle stelle e i magistrati titolari del caso fanno pure ricorso al Csm. Intanto i due politici finiscono a processo soltanto per un presunto reato elettorale. A sconfessare la linea della procura ci pensa il giudice per le indagini preliminari Luigi Barone che dispone l’imputazione coatta per concorso esterno a Cosa nostra. Il banco salta, il processo viene interrotto e i magistrati sono costretti a ricominciare da capo con la doppia accusa ma con due processi separati. Abbreviato condizionato per l’ex presidente, che il 31 luglio 2012 si dimetteva, e ordinario per il fratello Angelo. Per il primo si è arrivati a una doppia decisione: in primo grado la giudice Marina Rizza lo condanna a sette anni e otto mesi ma la corte d’Appello fa cadere il reato più grave e lascia una pena a due anni per voto di scambio. Per Angelo Lombardo il cammino giudiziario è ancora alla genesi: il processo di primo grado non è nemmeno arrivato alla requisitoria dell’accusa. Sul medico ed ex parlamentare dell’Mpa, i Ros registrano anche la presenza a un pranzo conviviale dopo la sua elezione nel 2008, quando allo stesso tavolo con il politico siedono il geologo mafioso Giovanni Barbagallo e il boss Alfio Stiro. Davanti ai nomi dei due Lombardo, è quasi passato inosservato un altro big della politica rimasto impigliato nell’indagine: Nino Strano. Anche per il senatore di Futuro e libertà la procura chiede l’archiviazione, ma lo scenario cambia con le accuse che gli rivolge il pentito Santo La Causa. L’accusa di concorso esterno però non regge e la giudice dispone il non luogo a procedere, nonostante per i magistrati si fosse «messo a disposizione degli Ercolano».

Un lato oscuro 
Tra processi finiti e altri che restano in attesa di andare a sentenza definitiva, nell’ambito della maxi inchiesta Iblis ci sono anche fascicoli che restano al palo. Uno di questi è quello che riguarda il duplice omicidio di Angelo Santapaola, nipote di Nitto, quasi-reggente spesso contestato, e il suo guardaspalle Nicola Sedici. Se da un lato al capomafia provinciale Vincenzo Aiello è stato inflitto l’ergastolo in qualità di mandante, dall’altro non c’è ancora un colpevole tra chi ha premuto il grilletto per uccidere il boss e il suo gregario. Freddati in un macello dismesso nel settembre 2007, con i corpi ritrovati carbonizzati alcuni giorni dopo in un casolare distrutto nelle campagne di Ramacca. Santo La Causa ha descritto ogni particolare di quei giorni, ma le sue dichiarazioni non hanno mai trovato i riscontri necessari per sostenere l’accusa in giudizio.


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