Etna, i «flussi piroclastici» e il rischio per i cittadini Studio sul 2014 e su instabilità del Cratere Sud-Est

Una miscela densa di particelle solide e gas acidi ad altissima temperatura e velocità che corre lungo i fianchi di un vulcano radendo al suolo tutto ciò che incontra lungo il proprio cammino: in linguaggio scientifico tale fenomeno è chiamato flusso piroclastico (dal greco frammenti di fuoco) e si tratta di uno degli eventi più imprevedibili e catastrofici associati alle eruzioni vulcaniche esplosive. Ma come si genera un fenomeno di questo tipo? Chiamati anche nubi ardenti, proprio per sottolineare l’elevatissima temperatura che li caratterizza, questi eventi sono generalmente provocati dal collasso di una colonna eruttiva. Durante un’eruzione esplosiva, infatti, l’elevata quantità di gas rilasciata dal magma in risalita è capace di polverizzare porzioni del condotto vulcanico generando un’enorme e densa colonna di cenere, frammenti di roccia e gas tossici che si innalza verticalmente sopra il cratere fino a svariati chilometri, a seconda dello stile eruttivo del vulcano: più il vulcano ha caratteristiche esplosive più la nube sarà imponente. 

Una volta che il peso della nube supera una certa soglia, però, essa collasserà su se stessa scivolando per gravità lungo i pendii del vulcano e formando un flusso piroclastico che può arrivare fino a velocità di 700 chilometri orari e a temperature che toccano i mille gradi centigradi. È questo un fenomeno che, a causa della sua estrema velocità, non lascia alcuno scampo e, per intenderci, è ciò che ha causato la distruzione di Pompei nel 79 d.C. a opera del Vesuvio. Nel corso della storia recente sono numerosissimi gli episodi di flussi piroclastici verificatisi nel nostro pianeta: per citarne solo alcuni basta ricordare i vulcani Pelée nel 1902, Merapi nel 1951, St. Helens nel 1982, Montserrat nel 1996, Sinabung nel 2018 e, appena un mese fa, il Volcan de Fuego che il 3 giugno scorso ha causato morte e distruzione in Guatemala. Si tratta quindi di un fenomeno molto comune, soprattutto per quanto riguarda i vulcani dalle caratteristiche particolarmente esplosive come quelli indonesiani o giapponesi.

Nonostante l’Etna sia un vulcano molto differente da quelli sopra elencati e con uno stile eruttivo molto più tranquillo, un rischio associato ai flussi piroclastici non è purtroppo da escludere. Nel corso della sua storia, infatti, il vulcano siciliano ha dato luogo a diversi episodi che hanno visto il verificarsi di fenomeni appartenenti alla categoria dei flussi piroclastici, seppur generati da meccanismi differenti rispetto al collasso per gravità della colonna eruttiva. Recentemente uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia delle sezioni di Catania e di Pisa (Pyroclastic density currents at Etna volcano, Italy: The 11 February 2014 case study) ha fatto un po’ più di chiarezza sui meccanismi con cui, sull’Etna, questi fenomeni sono generati e si propagano. La ricerca, finanziata dal dipartimento di Protezione civile, ha avuto lo scopo di ricostruire la dinamica del flusso piroclastico che l’11 febbraio 2014 ha interessato una porzione del Cratere di Sud-Est, il cui collasso ha generato un flusso di materiale incandescente (750 gradi centigradi) che si è propagato ad alta velocità verso la Valle del Bove per fermarsi ad oltre 2,3 chilometri di distanza dal luogo del distacco. Si è trattato del flusso piroclastico più esteso (oltre un milione di metri cubici) registrato sull’Etna dal 1999 e che ha, chiaramente, attratto un forte interesse da parte della comunità scientifica e della protezione civile, soprattutto a causa dell’assenza di chiari segnali precursori che indicano il verificarsi di un fenomeno di questo tipo.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Journal of volcanology and geothermal research, si è basato su un approccio multidisciplinare che ha intrecciato le analisi di fotografie, di immagini scattate dalle telecamere termiche, di dati relativi alla stratigrafia, alla tessitura e alla petrografia dei depositi del flusso investigato. I risultati hanno dimostrato che il flusso è stato generato da un progressivo indebolimento della porzione del fianco del cratere di Sud-Est dovuta evidentemente a fenomeni di corrosione a opera dei gas circolanti all’interno della roccia e ad altri episodi eruttivi precedenti che avevano interessato il cratere prima del 11 febbraio.

«Fino a qualche decennio fa – spiega Daniele Andronico dell’Osservatorio etneo dell’Ingv – l’Etna era poco incline a generare flussi piroclastici, perciò erano le colate a essere considerate tra i fenomeni eruttivi più pericolosi per la loro potenziale minaccia ai centri abitati. Dal 1998 a oggi, tuttavia, oltre 200 eventi parossistici con fontane di lava e colate hanno portato a una rapida crescita del Cratere di Sud-Est. Ciò ha comportato una serie di variazioni che hanno interessato l’area del cratere causando una generale e progressiva instabilità dei suoi fianchi. Il modello creato riguardo alla propagazione dei flussi piroclastici relativi all’eruzione del 2014, su cui stiamo ancora lavorando, potrà contribuire a valutare meglio la pericolosità associata a questi fenomeni e quindi alla mitigazione dei rischi a cui possono essere esposti scienziati e turisti che visitano le aree sommitali dell’Etna». Altri flussi piroclastici che hanno interessato i versanti del cratere di Sud-Est erano stati osservati nel 2006 ed erano già stati oggetto di uno studio condotto dal professore Carmelo Ferlito dell’Università di Catania. Più recentemente, un episodio analogo si è verificato all’alba del 6 dicembre 2015. Nelle immagini sottostanti due scatti che mostrano entrambi i fenomeni immortalati da Giuseppe Distefano di Etna Walk.


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