Fai Comunicazione e troverai lavoro La rivincita su falsi miti e ignoranza

In Italia i pregiudizi negativi sui corsi di laurea in scienze della comunicazione esistono da anni: laurea poco seria, esami facili da superare, titolo di studio svalutato sul mercato del lavoro perché le aziende si aspettano giovani impreparati o genericamente capaci di tutto e niente, che finiscono per confinare in ruoli malpagati e secondari. Insomma le battutacce su «scienze delle merendine», come i denigratori le chiamano, affliggono non solo gli studenti attuali, ma pure chi la laurea ce l’ha da anni.

La cosa peggiore, per chi subisce le battutacce, è che di solito provengono da persone che di comunicazione non capiscono niente. Il che è normale, a ben pensarci: se di comunicazione almeno un po’ te ne intendi, allora sei anche consapevole dell’importanza che ha per qualunque ambito professionale, e tutto faresti meno che denigrare chi ha studiato o studia per farla. Le uscite peggiori, nel 2011, sono venute dalla politica. Due esempi per tutti.

Gennaio 2011: a «Ballarò» il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, nel difendere la riforma della scuola, dice di aver voluto dare «peso specifico all’istruzione tecnica e all’istruzione professionale», perché ritiene che «piuttosto che tanti corsi di laurea inutili in Scienze delle comunicazion-i [sic] o in altre amenità, servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro». Infatti, aggiunge, i corsi in «scienze delle comunicazioni non aiutano a trovare lavoro», perché «purtroppo sono più richieste lauree di tipo scientifico, lauree che in qualche modo servono all’impresa». E «questi sono i dati», conclude Gelmini.

Ottobre 2011: il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, parlando prima a «Porta e Porta» e poi a «Matrix», spiega precariato e disoccupazione dicendo che «il problema dei giovani è che spesso non vengono seguiti dai genitori, che consentono loro di iscriversi a facoltà universitarie come Scienze della comunicazione». Sacconi usa cioè Scienze della comunicazione come esempio di laurea che produce precariato o, peggio, disoccupazione protratta. E non è la prima volta: l’aveva già fatto nell’agosto 2008, in un’intervista su L’Espresso.

Che i politici italiani alimentino i pregiudizi contro le lauree in comunicazione non mi stupisce più di tanto: poiché in Italia la politica – a destra come a sinistra – ha raggiunto negli ultimi anni i livelli più bassi anche nella comunicazione, oltre che nei contenuti e nelle azioni, i politici rientrano nel novero di coloro che sottovalutano il settore perché non lo conoscono. Che però i giornalisti riproducano gli stessi pregiudizi già mi stupisce di più, visto che non solo di comunicazione dovrebbero saperne, ma di comunicazione vivono.

Eppure nel 2009 Bruno Vespa si permise di chiudere una puntata di «Porta a Porta» addirittura «pregando» (sic) i giovani di non iscriversi a Scienze della comunicazione, e cioè di «non fare questo tragico errore che paghereste per il resto della vita». E commenti del genere, più o men pesanti, compaiono a cadenze quasi regolari su tutti i media.

Detto questo, l’ignoranza è certamente più grave nel caso dei ministri, perché un ministro dell’istruzione e uno del lavoro dovrebbero conoscere bene ciò su cui non solo rilasciano dichiarazioni ma prendono decisioni. Specie se concludono dicendo, come ha fatto Gelmini: «E questi sono i dati».

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[Foto di See-ming Lee]


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