No surrender: Konon, cantautore-filologo «Torno in Sicilia per cantare la mia terra»

Un assistente di volo con la passione per la musica e la lingua siciliana. Si chiama Konon, al secolo Cono Davide Cinquemani31 anni, viene da San Cono, paesino in provincia di Catania, e fa il cantautore. Dopo la laurea in lingue nella città etnea, ha vissuto tra Roma, la Germania e l’America, per poi decidere di tornare in Sicilia, dove scrive testi e compone melodie in cui la Trinacria «ha un ruolo centrale». Le sue canzoni, infatti, sono un cocktail di ricerca filologica, sperimentazione ritmica e cultura popolare non convenzionale. Con una «lente posata sul Siculish», ennesima variante del dialetto nostrano. Ctzen lo ha intervistato.

Konon, il tuo è un nome d’arte singolare. Da cosa deriva?
Dal mio nome di battesimo, Cono. Nome di mio nonno e del santo del paese in cui sono cresciuto. Un nome che da ragazzino subivo, ma che adesso ho rivalutato. Ho scelto Konon perché così si chiamava un generale ateniese del 406 AC.

Quando hai cominciato a fare musica?
Ad otto anni, grazie a mio padre, che faceva l’insegnate di musica. Nel 1995 mi sono avvicinato alle sonorità jazz e nel 2007 mi sono trasferito a Roma per studiare canto. Da un paio d’anni ho deciso di dedicarmi al cantautorato e alla produzione di musica mia.

Dopo la laurea in lingue, dalla Sicilia ti sei trasferito a Roma «per compromesso», facendo tappa anche in Germania e negli Stati Uniti. Come mai hai deciso di tornare?
Quando si parla di formazione, spesso per i giovani siciliani andare via è una tappa obbligata, sopratutto in campo artistico. Un compromesso neccesario. Sono tornato perché faccio musica siciliana e farla qui è un’altra cosa. Racconto la mia terra e solo in Sicilia mi sento nel posto giusto, perché per me è una fonte di ispirazione continua. Sarebbe stato triste scrivere e cantare nel mio dialetto in un posto diverso.

Parti da una formazione jazzistica. Come hai deciso di passare alla musica siciliana?
È stato un passaggio naturale. Canto in sanconese, il dialetto del mio paese, una lingua che mi appartiene. Non riesco a pensare ad un altro modo in cui esprimermi. Ho cominciato inserendo nei brani i proverbi della tradizione nostrana. Oltre ad affascinarmi dal punto di vista culurale, ho sempre trovato incredibile come tra tutti i 13mila proverbi italiani, 9mila fossero solo siciliani. Sono un legame con le tradizioni e identificano il nostro codice linguistico.

Che rapporto c’è tra la musica e una lingua popolare come il siciliano?
Un rapporto affascinate, ma anche tortuoso. Mettere il siciliano in musica ti porta a dover rispettare determinati canoni, suoni e melodie tradizionali, verso i quali un cantautore si sente quasi in obbligo. Per fare qualcosa di diverso, devi porti sempre l’obbiettivo di essere libero, di lasciare la tua musica libera dai paletti, dagli stereotipi. E allora ti accorgi che questa lingua ha un’apertura illimitata. E’ un approccio difficile, ma stimolante, da cui ottieni sempre nuove sorprese.

Definisci il tuo primo album, Vossìa, un «progetto musicale-filologico, che non racconta la Sicilia di Verga o Pirandello, ma una terra ricca di contraddizioni più recenti». Quale percorso hai seguito per realizzarlo?
Volevo far emergere una Sicilia diversa da quella che viene comunemente rappresentata. In campo artistico, mafia, pupi e serenate sono un prodotto che vende, ma non va al di là dello stereotipo. Volevo sfuggire a questa rappresentazione, per non subire la mia sicilianità ma sceglierla e trovare altre strade per raccontarla. Ho scelto quella linguistica: la tradizione popolare dei proverbi. Sono stati loro il punto di partenza di una ricerca sul campo che mi ha permesso di studiare e trascivere le caratteristiche del siciliano e capire quanto siano diverse le varianti da un luogo all’altro. Sono andato nei paesini a parlare con gli anziani, a farmi dire i loro proverbi. E’ stato un lavoro difficile, ma molto bello.

Il tuo ultimo progetto si chiama Variazioni in Siculish«un’analisi sulla lingua che cambia». Parlaci di questo lavoro.
Nasce da una costola di Vossìa e non è altro che la continuazione delle ricerche sul dialetto, un approfondimento volto a scoprire le tutte le varianti del siciliano e le differenze liguistiche tra le varie zone.

Cos’è il Siculish?
È una delle varianti meno conosciute del siciliano, nata nei primi decenni del Novecento. È la sicilizzazione di termini ed espressioni della lingua inglese da parte degli emigrati isolani negli Stati Uniti ed in Australia. I siciliani arrivati in America non parlavano italiano, ma passavano direttamente dal dialetto di origine all’inglese, storpiando i termini con strutture fonologiche, sintattiche ed ortografiche simili a quelle a cui erano abituati in Sicilia. Per loro è una lingua, che esiste e li lega alle loro origini. Nasce da mutazioni linguistiche, ma anche da fenomeni già esistenti, come le influenze dell’antico normanno. E’ un fenomeno linguistico rilevante, simile allo Spanglish, anche se in molti lo sottovalutano perché si tratta di un dialetto e non di una lingua nazionale.

Come l’hai scoperto?
Per caso. In aereo, mentre lavoravo, ho incontrato un gruppo di passeggeri americani che tornavano in Sicilia e parlavano una lingua a metà tra l’inglese e il siciliano. Sono rimasto affascinato e ho deciso di fare delle ricerche. Non sono ancora stati fatti studi ufficiali sul Siculish: a livello scientifico è un territorio ancora vergine. Il primo ad utilizzarne alcuni termini in letteratura è stato Leonardo Sciascia nel racconto La zia d’America del 1958. Il mio non è un approccio tecnico da accademico, perché non ne ho le competenze, ma da artistista. Mi sono appassionato e ho deciso di metterlo in musica.

Che risultati hai ottenuto?
C’è tanta libertà, perché è un territorio nuovo in ambito musicale. Con la mia band abbiamo realizzato quattro brani di cui siamo molto soddisfatti. La difficoltà sta nel trovare le parole giuste: non c’è una grammatica di appoggio e il vocabolario è ridottissimo. Si tratta per lo più di toponimi geografici e parole semplici di uso comune. Ma abbiamo intenzione di approfondire le noste competenze, continuando lo studio autonomo e proponendo il risultato delle ricerche ad esperti di dialettologia. Per non rimanere solo in superfice e non perdere il tempo investito.

[Foto di Konon]


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