Mafia, 9 aziende confiscate su 10 falliscono L’esperto: «Servono più uomini e mezzi»

La Sicilia è la regione d’Italia con più aziende confiscate alla mafia. Sono 567 di cui 489 in gestione all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati. Nella provincia etnea ce ne sono 91. Il 90 per cento viene generalmente messo in liquidazione o fallisce dopo la confisca. Un esempio tra tutti – di quello che per molti rappresenta una sconfitta dello Stato – è la Riela Group, la società di trasporti e di distribuzione di merci di Piano Tavola, nella zona industriale di Belpasso, di proprietà di Lorenzo Riela (deceduto nel 2007) e del figlio maggiore Francesco (detenuto all’ergastolo per omicidio), appartenenti al clan Santapaola. All’epoca della confisca, nel 1999, era la quattordicesima azienda più ricca della Sicilia, con un fatturato di 30 milioni di euro e 250 dipendenti. Adesso ne sono rimasti 22, che rischiano di restare senza lavoro in seguito all’annunciata chiusura.

Il declino è cominciato dieci anni fa, quando gli ex proprietari hanno cercato di riappropriarsi dell’azienda di famiglia, fondando un nuovo consorzio, Se.Tra. Service, che si è accaparrato tutti i clienti ed è addirittura diventato il principale creditore della società. Proprio a causa di questi debiti è stata messa in liquidazione. Le responsabilità di questa vicenda sono ancora tutte da accertare. È chiaro però che qualcosa non ha più funzionato nella sua amministrazione, proprio sotto il controllo pubblico.

Ma come funziona la gestione finanziaria delle aziende confiscate alla mafia? Quali sono le difficoltà? E come mai un’azienda come la Riela è sull’orlo della liquidazione? Lo abbiamo chiesto a Pucci Giuffrida, dottore commercialista con una ventennale esperienza di amministratore giudiziario di beni confiscati. Prima della confisca definitiva ha gestito la Riela Group insieme ad altri quattro colleghi per quasi due anni, con cui amministrava anche le altre quattro aziende del gruppo. Oggi tra le attività che gestisce ci sono anche esempi che rientrano nel dieci per cento di quelle che sopravvivono e anzi migliorano.

Il successo o il fallimento di un’azienda confiscata dipende da molti fattori. La risposta del mercato, dei clienti e fornitori, dei lavoratori e soprattutto dalle capacità dell’amministratore finanziario. Dal 2010, anno della costituzione dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati, gli amministratori sono nominati dal tribunale e confermati dalla stessa agenzia. Tra le aziende confiscate «alcune sono cotte in partenza – dice Giuffrida – Le altre si dividono tra quelle che si riescono a gestire in maniera sana e quelle che invece si fanno morire. Quest’ultimo caso rappresenta una sconfitta – spiega – Vuol dire alimentare l’opinione che con la mafia si lavora e con lo Stato no».

Influisce sulle sorti dell’azienda anche la sua tipologia. Mentre per le aziende di beni immobili è più facile mantenere il valore di avviamento, per quelle prettamente commerciali ci sono più difficoltà, dovute al fatto che il mafioso può dirottare la clientela. Ed è ciò che è avvenuto nel caso della Riela. «Ma chi ha firmato i contratti con il nuovo consorzio? – si chiede l’amministratore – Bisognerebbe risalire ai responsabili, perché quando si amministra un bene confiscato alla mafia non si può essere sprovveduti».

Non tutte le aziende confiscate sono però destinate a morire e non mancato gli esempi positivi. Giuffrida gestisce al momento le aziende di Michele Aiello, tra cui il lido dei Ciclopi e il Sigonella Inn, e la LA.RA. srl, un’azienda con circa 60 dipendenti che si occupa di condizionamento per ambienti e rifornimento in volo per aerei militari.  L’amministra da sette anni e attualmente presenta un utile netto di circa 300mila euro e «altrettanti ne paga di imposte», sottolinea il commercialista. Perché un’azienda confiscata, se si riesce a non farla fallire, porta ricchezza allo Stato. Lavora rispettando le regole: paga le tasse e non ha lavoratori in nero, ma quelli che sono i suoi punti di forza, possono diventare anche i motivi per cui non riesce a stare sul mercato. «La mafia può condizionare il mercato e ne altera le regole – dice Giuffrida – Basti pensare semplicemente ai metodi che usano per il recupero crediti. E a quelli che hanno per eliminare la concorrenza».

Per l’amministratore ci sono tanti aspetti su cui lavorare per far aumentare la percentuale delle aziende confiscate che riescono a mantenere la loro presenza nel mercato. Primo fra tutti colmare la carenza di uomini e mezzi dell’Agenzia nazionale. «Ci vorrebbe un ufficio dedicato solo a questo – afferma Giuffrida – E invece, da un lato, c’è la mafia con organizzazioni megagalattiche internazionali e dall’altro 30 persone che devono occuparsi di più di 12mila beni in tutta Italia».

Secondo il commercialista, anche la legge ha dei difetti che contribuiscono a rendere più complicata la gestione dei beni confiscati. «La nuova normativa prevede la vendita degli immobili, ma non se ne venderà uno – dice – perché la gente ha paura di appropriarsi di un bene appartenuto a un mafioso e sarà molto alto il rischio che quando accadrà si daranno a dei prestanome». Per le aziende, invece, la legge prevede che quelle non operative vengano messe in liquidazione. Le altre possono essere affidate a delle cooperative appositamente costitute o si possono vendere «a chi ne abbia fatta richiesta», come specifica un trafiletto della norma. Un altro dettaglio pericoloso per Giuffrida, perché «è assurdo – fa notare – che si voglia procedere senza aste pubbliche. Così si limita la trasparenza e si rischia di svendere l’attività».

La soluzione di Giuffrida per limitare gli insuccessi è chiara: «Se fossi il legislatore, le piccole aziende non le confischerei. Confischerei solo le grosse e le grossissime, perché con queste si ha più possibilità di successo». Le piccole aziende, infatti, sono più difficili da gestire e da mantenere in vita. «Si pensi a un’azienda unipersonale come può essere un posto da pescivendolo o quelle gestite da nuclei familiari come un piccolo negozio o un panificio – spiega Giuffrida – Quando si arresta il proprietario e si confisca l’attività, questa è destinata a chiudere e vuol dire mettere in mezzo alla strada il figlio o la moglie. Non sarebbe meglio lasciarli lavorare?», si chiede.

Le grandi aziende, invece, sono più strutturate ed «in un certo senso si reggono in piedi da sole», dice Giuffrida. «I lavoratori sperano solo che non fallisca l’azienda – aggiunge – e dopo il primo periodo di sbandamento si rendono perfettamente conto che continuare a lavorare bene vuol dire fare il proprio interesse». Certamente bisogna saperle amministrare o si finisce per fare il gioco dei mafiosi come nel caso dell’azienda di Belpasso. «Con la Riela – commenta l’amministratore – forse si poteva trovare una soluzione, ora è tardi. Si doveva rinnovare il parco macchine. Renderla competitiva sul mercato. Tutto questo non si è fatto. Adesso resta solo da accertare le responsabilità».

 

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