Festival di Perugia, tra cinema e giornalismo Diaz e Acab, quando la violenza è di Stato

La prima giornata di lavori del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia si è chiusa ieri al Teatro del Pavone con un affollato incontro dal titolo: Acab e Diaz. Il racconto della violenza tra cinema e giornalismo. Ospiti i registi dei due film, Stefano Sollima (Acab) e Daniele Vicari (Diaz), Carlo Bonini, giornalista de La Repubblica e autore del libro Acab. All cops are bastards da cui è liberamente tratto l’omonimo film, ed Emiliano Fittipaldi, giornalista de L’Espresso e moderatore dell’incontro. Due film che riproducono la violenza operata dai poliziotti in diversi eventi che hanno segnato la storia politica italiana nell’ultimo decennio.

Come la notte del 21 luglio 2001, raccontata in Diaz, quando a Genova la scuola che porta lo stesso nome del film diventò lo scenario del massacro brutale dei partecipanti alle manifestazioni contro il G8: gli aderenti al movimento Genoa Social Forum innanzitutto, ma anche giornalisti, avvocati, sindacalisti. Un film di grande forza narrativa che ha come protagonista assoluta la violenza della polizia, esercitata fino all’estrema sospensione dei diritti civili. Obiettivo: spalancare una finestra su un cortile da alcuni – soprattutto le nuove generazioni – mai esplorato, da molti altri dimenticato, da altri ancora rimosso. L’idea di Vicari risale al novembre 2008, quando la sentenza di primo grado per il caso della scuola Diaz suscitò sentimenti di indignazione e profonda delusione tra le vittime di quelle violenze. E’ da lì che il regista ha iniziato a studiare gli atti del processo e a lavorare al film.

Una pellicola che, come quella di Sollima, sin dalla sua uscita ha suscitato polemiche e un serrato dibattito, soprattutto tra chi quei giorni a Genova c’era in prima persona. Una critica in particolare ha moltiplicato la discussione, ieri a Perugia, ma anche in Rete nelle ultime settimane. Vittorio Agnoletto, allora portavoce del Genoa Social Forum, ha accusato il regista e i produttori di Diaz di aver fatto un’operazione riduttiva, oscurando una parte della realtà e non lasciando emergere il valore del Forum. Che, spiega il portavoce, resta una delle esperienze più innovative e interessanti di organizzazione e proposizione teorica e pratica dei movimenti degli ultimi decenni. E ancora di avere taciuto le responsabilità politiche e istituzionali di chi ispirò, condusse e giustificò quell’operazione di violenza.

Il film, infatti, si chiude con poche righe sulle condanne stabilite ad oggi e la notizia sconcertante che nessuno dei responsabili delle brutalità mostrate sia stato sospeso dal servizio. Dimentica, però, di dire chi siano le persone indagate e condannate e – fa notare Agnoletto – soprattutto che molti di loro sono stati promossi piuttosto che sospesi. Tra questi Gianni De Gennaro, allora capo della polizia e oggi capo dei servizi segreti. Come nessun accenno viene fatto ai politici coinvolti nei fatti e al loro ruolo, da Gianfranco Fini a Claudio Scajola a Roberto Castelli. Daniele Vicari, interpellato sulla questione da Fittipaldi, ha replicato spiegando di aver voluto raccontare solo un momento di quei giorni e di aver escluso per questa ragione il contesto generale degli eventi, troppo difficile da sintetizzare in poche scene. Rispetto alla critica sulla copertura offerta ai personaggi contestati, invece, la sua è stata una scelta precisa nel tentativo di non inchiodare i fatti al singolo episodio di cronaca, ma di cercare piuttosto di costruire una metafora del rapporto tra cittadino e potere e della questione, attualissima, della legittimazione della sospensione dei diritti civili di fronte a crisi ed emergenze più importanti.

La caduta dei freni inibitori dei poliziotti è, secondo il regista, specchio della sicurezza di rimanere impuniti e della convinzione di essere legittimati dal consenso sociale al loro operato. Ed è questo a far male del film. Uno degli aspetti più inquietanti che emerge dalle riprese e dalla vicenda in sé è che a compiere quelle atrocità furono figure che nell’immaginario collettivo dovrebbero incarnare la protezione e la difesa di quegli stessi diritti umani e civili violati. Il merito più grande riconosciuto a un film come Diaz è di aver reso visibile per la prima volta a un grande pubblico il racconto di quella notte.

Il rischio però è che un giovane ventenne di oggi resti spaesato di fronte a un film del genere. Perché 300mila persone erano a Genova in quei giorni? Con quali speranze, obiettivi, timori? Che storia aveva quel movimento? Dubbi forse accompagnati da un errore: quello di pensare di aver assistito a un film su episodi isolati dovuti alla cattiva azione di alcune mele marce. E non di azioni progettate e con un obiettivo: più politico che di ordine pubblico. A rispondere poteva essere Antonio Manganelli, attuale capo della polizia, nello stesso teatro fino a qualche minuto prima per un appuntamento in ricordo di Falcone e Borsellino. Risposte a un film che è un forte pugno sullo stomaco.


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