Regionali, niente lavoro in cambio del voto? «E io vendo la mia preferenza per 100 euro»

Da un lato la rabbia verso un candidato alla Regione per una presunta promessa di lavoro disattesa, dall’altro l’apprezzamento verso quel politico che invece «il lavoro lo ha dato a tante persone». Nel mezzo c’è chi da deciso di tagliare corto, annunciando direttamente la vendita del proprio consenso elettorale alle prossime consultazioni regionali al miglior candidato-offerente. Prezzo di partenza: 100 euro. Così la pratica del voto di scambio sbarca sul web e passa da malcostume – e anche reato – a chiacchiera sui social network. E’ la nuova frontiera del clientelismo in versione 2.0 e si racconta attraverso le storie di Marco, Lucia e Luca, nomi di fantasia che utilizziamo per proteggere la privacy di tre utenti che pure ne discutono su Facebook con il proprio nome e cognome.

«Quello che penso io è che la miglior cosa da fare ormai è non dare voti a nessuno. Perché il voto lo vogliono, ma lavoro non ne danno a nessuno». E’ l’opinione di Lucia, disoccupata trentacinquenne di Belvedere di Siracusa che, nonostante la sfiducia manifestata verso l’attuale classe dirigente, non nasconde il suo debole per almeno uno degli aspiranti deputati in corsa a Palazzo dei Normanni. Il suo politico ideale si chiama Giuseppe Sorbello, candidato all’Assemblea regionale siciliana nelle file dell’Udc. Già assessore della giunta Lombardo e sindaco della città di Melilli, in provincia di Siracusa, a novembre dello scorso anno Sorbello è stato condannato in primo grado dal tribunale del capoluogo aretuseo a quattro mesi di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per abuso in atti d’ufficio. L’allora sindaco, secondo i magistrati, nel 2007 avrebbe utilizzato fondi comunali per la pubblicazione di materiale elettorale – un opuscolo dal titolo Novanta buoni motivi per riconquistare la tua fiducia – in vista delle amministrative tenutesi poco dopo a Melilli. Ma per Lucia, Sorbello resta pur sempre «un uomo vero» perché lui, a differenza di altri, «almeno il lavoro lo ha dato a tante persone», sostiene.

E tra chi si è prestato al gioco del baratto elettorale, naturalmente, ci sono anche i delusi. Come Marco, un ragazzo sveglio e impegnato nel sociale, ma affetto da una grave disabilità che lo ha costretto alla sedia a rotelle. Ha quarant’anni, vive a Noto e da tempo attende una sistemazione lavorativa che lo Stato non riesce a garantirgli. In preda alla rabbia, un bel giorno decide di lasciare un messaggio sulla bacheca Facebook del politico che avrebbe disatteso una vecchia promessa. «Mi cerchi quando è ora del voto – scrive Marco – Io ancora aspetto da 15 anni da te, Pippo Gianni, un posto di lavoro, mi hai preso in giro». Il destinatario del messaggio è Giuseppe Gianni, attuale deputato nazionale in quota Pid, ex assessore regionale all’Industria del primo governo Lombardo, già sindaco di Priolo e adesso in corsa per una nuova poltrona all’Ars. Secondo il pentito di mafia Francesco Marino Mannoia, Gianni sarebbe stato vicino a Cosa nostra.

Come medico, racconta il collaboratore di giustizia, avrebbe aiutato l’organizzazione a simulare false malattie per ottenere ricoveri d’urgenza per i suoi detenuti. Un’accusa che, sino ad oggi, non ha però trovato conferme nelle aule dei tribunali. Così come i procedimenti a suo carico per associazione a delinquere finalizzata alla commissione di turbativa d’asta, concussione e voto di scambio, nel 1995, e per voto di scambio con l’aggravante di aver favorito Cosa nostra nel 1998. Entrambi conclusi con la definitiva assoluzione dell’imputato. Ma Gianni è anche un politico che non le manda a dire. «Le donne non ci devono scassare la minchia», dice nel 2005, nel corso di un dibattito sulle quote rosa in politica. «Non ci possono essere privilegi per gli omosessuali», rilancia a luglio dello scorso anno, motivando così in aula il suo voto contrario alla legge sull’omofobia. E infine, pochi mesi fa, durante un comizio elettorale a Melilli in sostegno del candidato sindaco Remo Ternullo, rivolgendosi provocatoriamente al primo cittadino uscente Pippo Sorbello, chiede: «Ma perché sei preoccupato se ho fatto entrare qualcuno alla banca? Ne farò entrare altri… Vuoi che ti chieda che cosa devo fare? Mi vuoi dare qualche nome?».

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E’ cosi che funziona il meccanismo del voto di scambio. Nomi che si traducono in consensi elettorali ottenuti in cambio della promessa di un’occupazione. O, addirittura, per poche centinaia di euro. Quasi una prassi pre-elettorale per molti cittadini. Eppure questa pratica, per niente semplice da dimostrare in giudizio, costituisce reato. La legge punisce con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa fino a duemila euro circa, sia chi «offre, promette, somministra» in cambio della rinuncia alla libertà di voto, sia l’elettore «che ha accettato offerte o promesse o ha ricevuto denaro o altra utilità». Ma se un tempo era il politico a bussare alla porta del potenziale elettore, oggi succede anche il contrario. Come nel caso di Luca, che di anni ne ha 29 e di lavoro fa l’impiegato in un’azienda pubblica. Per lui i politici «sono tutti corrotti» e, senza speranze di cambiamento per il futuro, attraverso un annuncio su Facebook decide per una drastica soluzione: «Il mio voto costa 100 euro altrimenti fate come tutto il resto della vita: non salutate, perché non ci conosciamo», scrive all’interno di un gruppo aperto su Facebook dedicato alle elezioni regionali. «In questa campagna elettorale sto iniziando a capire perché molti, troppi politici sono corrotti», gli risponde qualcuno.

[Foto di lorZ]


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Una volta erano i politici a cercare potenziali elettori con promesse di denaro o posti di lavoro. Adesso invece sono gli stessi cittadini a offrire la propria preferenza pubblicamente, sui social network. C'è chi stabilisce un prezzo e chi sostiene un candidato che «almeno il lavoro lo ha dato a tante persone», nonostante un passato giudiziario non trasparente. Un antico malcostume ormai prassi elettorale che però resta sempre un reato

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