Calcio, Andujar e l’epica della normalità Vita ed esempio fuori dal campo di gioco

Già: la rapidità, scrive nel suo ultimo, bel commento Claudio F. Spagnolo.

E se invece spigolassimo, tra le lezioni americane di Calvino, anche quella sulla “molteplicità”? Se accettassimo quell’idea – letteraria e reale a un tempo – del mondo “come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo”? Se accogliessimo l’invito a “rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento”?

Forse non ci sarebbe spazio per il genio – squadrato, levigato e inappellabile – di Barrientos. Molto, invece, ne troverebbe la normalità di Mariano Andujar: che, al di là di papere e parate, ci ricorda costantemente sottotraccia che c’è una vita oltre il rettangolo di gioco. Più complessa dell’abbacinante squarcio di genialità, forse: ma, certo, più umanamente comune.

Proviamo a sgranare qualche fotogramma, di questa umana epica di Andujar.

La prima immagine immortala il dopopartita di Parma-Catania, finita in un funambolico pareggio per 3 a 3, nel dicembre dell’anno passato. Negli spogliatoi irrompe l’allora amministratore delegato catanese Pietro Lo Monaco, che sottopone a una strigliata la squadra.

I dettagli della vicenda e i contenuti della ramanzina non sono noti, se non per alcune notizie (non ufficiali, ma mai smentite) filtrate attraverso la stampa. Noto è invece – e ormai quasi proverbiale, da Cariddi in giù – il garbo dialettico di Lo Monaco: e si può, da questo, facilmente immaginare che il suo piglio nei confronti dei giocatori sia stato quello del padrone della piantagione verso la marmaglia sfaticata.

Andujar non ha particolari colpe sui gol subiti, pure non riesce a mandare giù il tono del superiore. Protesta, a nome della squadra. Chiede, esige rispetto. Il direttore risponde a muso duro: forse si arriva anche alle offese, agli spintoni, ma questo importa poco. Il risultato è che il portiere – reo di lesa maestà – viene messo fuori rosa e mandato a svernare in Argentina. Mentre Lo Monaco lo consegna in pasto alla tifoseria – accusandolo pubblicamente di scarso attaccamento alla maglia – Mariano l’unico commento lo affida al suo twitter: “Non ho detto mai di meritare altre piazze, ringrazio tutti quelli che credono in me, mi sono comportato da uomo, sempre!!! Arrivederci e grazie”.

La seconda immagine è ripresa in tempi più recenti, nel ritiro estivo di Torre del Grifo. Sui quotidiani nazionali impazzano le notizie sul fallimento della Windjet e sulle grane finanziarie di Nino Pulvirenti. Il giornalista sportivo – più sportivo che giornalista, a occhio e croce – individua a suo modo il nocciolo dell’arruffata questione, e lo espone in una domanda ad Andujar: siete vicini al vostro presidente, che sta passando un momento difficile a causa dei noti dissesti economici? Mariano ci pensa su. Ha appena scontato – dicevamo poc’anzi – qualche mese di esilio transoceanico, per un peccato di parola; potrebbe facilmente cavarsi d’impiccio, senza il rischio di ulteriori danni, con un semplice “seguramente” (avverbio molto in voga tra gli argentini italofoni). Invece, puntualizza: siamo vicini soprattutto ai lavoratori che rischiano di restare sulla strada, siamo vicini alle loro famiglie.

La terza immagine è già cronaca di un paio di domeniche fa: il portiere rossazzurro inciampa in una papera assai imbarazzante, nella partita contro l’Atalanta, che vale il momentaneo uno a zero a favore dei bergamaschi. A questo punto, in omaggio alla rapidità e sregolatezza del genio, sarebbe lieve poter raccontare di un’orgogliosa reazione di Andujar: di successivi scatti felini per difendere la porta, di incontenibili discese palla al piede sin dentro l’area avversaria, di gol di testa o di punizione, e di altre guasconate assai tipiche dei portieri latinoamericani.

Nulla di tutto ciò. Mariano ci resta – semplicemente – malissimo: ne risentirà per tutto il resto della partita, si produrrà in un paio di rinvii maldestri, denunciando qualche difficoltà a riprendersi. Sino a quando, a partita finita in rimonta per due a uno a favore del Catania, i suoi compagni non lo andranno ad abbracciare: un po’ per esultanza, un po’ per conforto.

Poi, negli spogliatoi, pur non essendo tenuto a farlo, dice di voler andar lui in conferenza stampa: e parla solo per chiedere scusa pubblicamente ai compagni, ai tifosi, alla società per quell’errore che ha rischiato di compromettere la partita.

Starete adesso pensando: e tutto ciò cosa ha a che vedere con il calcio giocato? Nulla, infatti. È proprio questo, il punto: che non sempre la vita è gioco. O meglio, che non sempre (e non a tutti) è concesso venir fuori dall’intricata trama del gioco della vita con un lampo di genio: con il tratto rapido – ricordate Monicelli? – di “fantasia, intuizione, decisione, e velocità d’esecuzione”.

Per i più – che non sono ventilati dal soffio del genio – giocare la propria quotidiana partita è un costante, faticoso dipanare la matassa di tiri mancini del destino, di soprusi patiti dalla volgarità padronale, di errori personali che ingarbugliano la vita di ogni santo giorno. È resistere al senso di inadeguatezza che si prova di fronte all’avversario e alle avversità, di fronte a un gioco più grande di noi. È vincere: quando vincere – non sempre – si può. Altrimenti è registrare la sconfitta con dignità, senza bugie e senza accondiscendenza verso se stessi. Attendendo il prossimo fischio d’inizio.

Per questo a me – che sono certamente dei più – l’etica di Andujar commuove più dell’estetica di Barrientos. Non che io sia insensibile alle giocate del Pitu, sia chiaro: ma – al di fuori dei novanta minuti – mi consola maggiormente l’esempio di Mariano.

“Uno di noi”, recita un coro comune la domenica, nelle gradinate delle Curve. Non sono molti i giocatori per i quali tale slogan mantiene intatto il proprio senso, anche per i restanti sei giorni della settimana: Andujar è – seguramente – uno di questi.


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