La sposa turca

Esiste un modo di vivere bene? Una bella vita, o anche una “Dolce vita” o una “Buena vida”? I personaggi de “La Sposa Turca” sono tutti preoccupati, quasi ossessionati da questo.

Eppure il film si apre con una vicenda dannata, selvaggia, da “mala vida.” Cahit ubriaco barcolla in un bar, beve, provoca una rissa, e rientrando in macchina finisce frontalmente contro un muro. Buio. Fine.

No. Stacco. Una casa di cura. Collare ortopedico, andare barcollante, stavolta non per l’ubriachezza ma per le fratture. Ha una faccia simpatica, Cahit. Non parla molto. Osserva. Sta in silenzio. E quando Sibel gli rivolge parola, le domanda “Dove posso trovare una birra?”

Cahit e Sibel sono due immigrati turchi in Germania. Lui ribelle, triste, dannato, ma anche simpatico, quasi comico, con una storia di amore infelice alle spalle e una vita difficile da accettare. Lei, giovane e bella, ha tentato il suicidio perché non sopporta l’idea di una vita da brava ragazza musulmana.

“Se mi sposi te la trovo io, la birra” risponde lei. Sibel, lei sì che ha sete. Ma non di birra. Di vita. Vivere bene, vivere tanto, vivere intensamente. “Voglio scopare, avere tanti uomini, andare in giro per i locali.” È il suo programma, il suo manifesto di “buena vida.” Per metterlo in pratica propone a Cahit un finto matrimonio, un matrimonio di convenienza. Lei così potrà fingere di sposarsi con un connazionale turco e sfuggire alla prigionia impostale dalla famiglia. Cahit è riluttante; ma buono in fondo al cuore. Accetta. I due così cominciano un improbabile ménage fatto di finta convivenza, sbronze, locali e tiri di cocaina. La notte stessa del matrimonio Cahit caccia di casa Sibel, che si butta nelle braccia del primo che capita. Il giorno dopo, non avendo dove andare, Sibel torna da Cahit. Ma quanto potrà durare?

Strizzando un occhio al filone della commedia etnica e sviluppandosi in maniera agile ma vigorosa, “La Sposa Turca” butta sul tavolo più carte di quante non sembri inizialmente tenere in mano: immigrazione, differenze tra culture, scontro tra civiltà e tribolazioni degli individui che vivono questo scontro: tematiche che si intrecciano a temi eterni (amore e morte) e a una effervescenza quasi punk, alla freschezza e a una abbacinante intensità dei personaggi. La storia non è neanche per un attimo prevedibile o scontata, il taglio sempre originale, il tono vario e carico di più livelli di significato.

Tutti i personaggi del film, anche quelli rapidamente accennati, sono animati da un anelito, da un’energia che li rende presenti e vivi: corpi guizzanti. Ognuno insegue ed esprime, chi estremamente –quasi rabbiosamente–, chi bonariamente, la propria concezione di una vita che valga la pena vivere.

Per i genitori e il fratello di Sibel, vivere bene significa farlo nel modo dettato dalla loro cultura e dalla loro religione. Lì, in Germania, a quattromila chilometri di distanza. Non sono una famiglia di integralisti. Il padre, calmo e malinconico, cerca un difficile equilibrio tra vecchi valori e la nuova vita; il fratello, più rigido, trova nel lavoro e in una moralità ferrea il suo modo di adattarsi.

Nel piccolo universo della comunità turca in Germania ognuno trova la sua maniera di andare avanti: il migliore amico di Cahit, “lo zio”, si fa strada con la bonarietà e il buon senso. Molti altri si cullano sulle ipocrisie e i compromessi. “Odio i turchi” esclama Cahit, quando è messo di fronte a un quadretto che mostra le contraddizioni e gli escamotage della sua cultura madre: gli uomini, quasi fanatici della moralità e della rispettabilità per quanto riguarda la propria famiglia, vanno tranquillamente al bordello; le donne trovano la loro realizzazione nel fare l’angelo e il diavolo del focolare, chiacchierando minuziosamente poi tra di loro delle performance che hanno coi rispettivi mariti e di questioni di tecnica sessuale.

Cahit e Sibel sono troppo puri, troppo estremi, troppo ardenti, troppo fragili per vivere così. La loro è una deliziata e disperata danza di amore e di morte. E non è facile capire dove li condurrà questa danza.

Il film è incorniciato e scandito da una serie di siparietti in cui una canzone turca viene cantata e ballata da un’orchestrina tradizionale. Quando finalmente, nell’ultima parte del film, la Turchia –Istanbul– viene mostrata, appare differente da come la si è immaginata per tutto il film. Una Istanbul moderna, brulicante, con un grande albergo dove lavora Selma, la cugina di Sibel. Selma è una donna determinata, bella, moderna, che ha accettato il capitalismo e lavora ventiquattro ore al giorno per diventare direttrice dell’albergo. Ci vuole poco perché Sibel si accorga che Selma si è liberata dalla schiavitù della morale tradizionale solo per sottomettersi ad un’altra schiavitù, quella spietata del lavoro e dell’arrivismo.

Quando i personaggi sembrano arrivare ad un approdo, ad una soluzione, ecco che il fulcro si sposta, l’equilibrio si rompe e ci vuole un’altra ricerca, una nuova soluzione, un nuovo viaggio. I percorsi e i conflitti esistenziali –e sociali– non sono mai presentati in maniera manichea, i rapporti non sono mai semplici e univoci ma complicati, sfaccettati, e per questo intriganti e pieni di fascino.

Un film rilucente, intenso, divertente. Attori strabilianti. Una protagonista maliziosa e molto sensuale (l’attrice che interpreta Sibel, Sibel Kekilli, ha al suo attivo 11 film porno prima di aver girato questo film), un protagonista antieroico e simpaticissimo. Colonna sonora da urlo. Piccoli tocchi e dettagli che sono delle vere chicche (solo per il poster di Siouxsie and the Banshees attaccato dietro la porta di casa di Cahit, il film sarebbe da guardare). Un film per chi mangia punk e kebab. Per chi sta con gli occhi aperti e non si spaventa di vivere –o di cercare di vivere– intensamente.

Per chi cerca –dovunque, comunque–  la “buena vida”.

Dopotutto, come dice il pezzo alla fine del film, Life’s what you make it.

www.bimfilm.com/lasposaturca/
www.gegendiewand.de    www.normal-records.de

Recensione

Spoiler free

charley_varr1ck@yahoo.it

 


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