Romanzo criminale: le storie, la Storia

Il “romanzo” del titolo proviene probabilmente dalle sparute citazioni letterarie, quasi certamente dagli eventi storici e sicuramente dalla finzione scenica, ma ancor più dalla sua forma originaria: Michele Placido, regista del film, lo ha girato, infatti, rifacendosi al romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo; il “criminale”, invece, si riferisce alla banda parvenue che raggiunge rapidamente il potere in quel di Roma, ma che lentamente deriva verso l’automutilazione a causa della mancanza di gerarchie precise e regolamenti interni.

 

Sembrerebbe proprio che la poetica del romanzo storico che illo tempore ispirò Walter Scott e Alessandro Manzoni non voglia affatto uscire di scena. Stavolta, come anche in altre occasioni, non si accontentava di restare relegata alla letteratura; anzi, oramai ha imparato a fare uso del multimediale per apparire sulla scena in qualità di filo conduttore. In questo film-romanzo la storia di un potente quanto disgregato gruppo criminale della capitale si intreccia abilmente alla Storia oscura dell’Italia degli anni ‘70, gli anni definiti di piombo, che videro il susseguirsi di attentati alla democrazia e alla stabilità del Paese come il sequestro da parte delle Brigate Rosse dell’allora Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e il ritrovamento del suo cadavere tra la sede della DC e quella del PCI o come l’esplosione della bomba alla stazione di Bologna. L’intreccio fa sì che i personaggi forgino la Storia, ne facciano inconsciamente parte, ne siano travolti, vi facciano una piccola visita e ne escano.

 

“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto…” avrebbe detto Ariosto. In effetti a trame siffatte il cinema ci ha già abituati. Di diverso dal poema e da altri film c’è che a fare da collante tra le vicende storiche italiane e le vicende dell’organizzazione malavitosa, altre all’accattivante musica del periodo rappresentato, ci pensano due misteriose figure, incarnazione di un’Italia marcia, che scende facilmente a compromessi. Ed anche una terza pedina, il commissario Scialoja (Stefano Accorsi), modesto servitore dello Stato, spaventato o debole, salta un turno dinanzi a giochi troppo grandi da giocare e pesci troppo grandi da pescare.

 

Sete di potere, sete di sesso, sete di vendetta. I protagonisti non saranno personaggi a tutto tondo, ma è facile scoprirne i pensieri e le debolezze. Il Libanese (Pier Francesco Favino), il Freddo (Kim Rossi Stuart), il Dandy (Claudio Santamaria), il Nero (Riccardo Scamarcio) e altri ancora sono ragazzacci di strada che il destino beffardo e capriccioso, come ribadisce il finale davvero ben costruito, ha voluto immischiati in rapimenti, assassini e affari di droga. E la loro storia diventa Storia: i capi si avvicendano come imperatori della Roma Antica. Ognuno con il suo nome, ognuno con i suoi scopi personali. Da una parte, dunque, la Repubblica attentata, dall’altra gli Imperi tirannici attentatori.

 

Una fiammella di speranza sembra illuminare il viso di uno dei protagonisti che tra uccisioni e traffici illeciti, scopre per puro caso l’amore. Ma è solo una vaga illusione che gli costerà cara. In questo caso è Romeo che si avvelena, ma di morte certa – non apparente e temporanea – per poter godere della sua lei in libertà. E mentre tutto sembra alla fine avere un senso logico, ecco che la verità, con annessi e connessi uomini corrotti, viene insabbiata per tornare nuovamente ad essere la parte buia di un periodo storico che come un buco nero la Storia l’ha divorata e ancora ne deve sputare gli ossi.

 

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