Ieri il tribunale di Catania ha assolto gli otto imputati nel processo per la presunta gestione irregolare di quelli che sono stati ribattezzati laboratori dei veleni. Ma, nonostante la decisione abbia scagionato i vertici universitari, è difficile accettare in silenzio
Farmacia, quando «il fatto non sussiste» Una figlia: «Non è possibile, non ci credo»
Le sentenze non si commentano. Ma è difficile restare in silenzio quando una vicenda che ha messo in dubbio il ruolo di un’istituzione considerata sacra l’università si conclude così. «Il fatto non sussiste». Però le ore di testimonianza di ex docenti, ex studenti e personale in servizio che sostenevano come le norme di sicurezza fossero ignorate, che consistenza hanno?
Le preoccupazioni dei familiari «suggestioni» secondo le tesi dei difensori angosciati dalla possibilità che i propri cari siano morti a causa del luogo di lavoro, non possono non avere un valore. I timori espressi dai vertici del dipartimento ai dirigenti dell’ateneo, avrebbero dovuto essere una prova? In una lettera firmata durante un’assemblea plenaria, i professori mettono nero su bianco sospetti e dubbi, dichiarando di non poter più prendersi la responsabilità di quel che accade.
Le sentenze non si commentano, ma si registra il sollievo di un’istituzione universitaria che spera di scrollarsi di dosso in fretta una macchia, un’onta inaccettabile. E si affretta a dichiarare che adesso si sta prestando attenzione alla sicurezza. Il passato è stato assolto. E se emergono nuovi dubbi su tematiche simili, il tutto viene ridotto alla stregua di «notizie allarmistiche e infondate». Scherzando con i giornalisti in attesa, prima della lettura della sentenza qualche avvocato difensore afferma: «Intervistate il professore – Guido Ziccone, legale dell’ateneo, responsabile civile e parte lesa, ndr – Lui, in un modo o nell’altro ha vinto».
«Il fatto non sussiste». Sulla base di cosa lo diranno solo le motivazioni della sentenza che arriveranno tra qualche settimana, e lì, chissà, qualche responsabilità potrebbe emergere. Ad avere la consistenza di un macigno è lo sguardo di una madre, rassegnato alla possibilità di non ricevere mai giustizia. Quello che blocca il respiro, toglie il fiato, è lo smarrimento di una figlia che ripete: «Non è possibile, non ci credo».