Calcio Catania, chi esulta e chi non sa più farlo La festa (quasi) strozzata di un gol a Cosenza

C’è un mio amico che non sa esultare. Non si perde mai una partita; soffre, in un silenzio carico di funesti presagi, quando certi palloni calciati dagli avversari si approssimano a minacciare la nostra porta; accompagna con mute devozioni al dio del calcio ogni azione d’attacco dei rossazzurri; riesce a fiutare un gol in arrivo dalle movenze dei calciatori, esattamente come gli etruschi scrutavano il destino nelle viscere degli animali; assapora un gol della nostra squadra con la stessa interiore voluttà con cui un tabagista trattiene il fumo in fondo ai polmoni – ma non sa esultare. Anche se io, che lo conosco da una vita, so bene che non è sempre stato così.

Me lo ricordo, per esempio, quella domenica di nove anni fa, allo stadio di Bologna. Si giocava, in campo neutro, una specie di spareggio per restare in serie A, tra Catania e Chievo. E lui era lì, in quel giorno d’estate che alternava pioggia e sole, a covare col desiderio il momento in cui Rossini avrebbe sbattuto nella porta avversaria il pallone del vantaggio e della nostra salvezza. Fu un urlo barbarico, un’esplosione di energia lungamente trattenuta, un’irrefrenabile detonazione di felicità quella che quel giorno sentii risuonare, accanto a me, da dentro l’impermeabile in cui il mio amico si era interamente avvolto. E che non volle togliersi di dosso – infischiandosene della propria salute – nemmeno quando all’improvviso smise di piovere e, su Bologna, si accese all’improvviso un sole sahariano. Perché lui, che in quell’impermeabile aveva festeggiato il gol di Rossini, era perfettamente consapevole che senza impermeabile non ci sarebbe stato nessun gol. E presagiva che solo tenendoselo addosso, non importa se ormai con 35 gradi di temperatura, sarebbe arrivata, col raddoppio di Minelli, la certezza della nostra salvezza. E la seconda, fragorosa esultanza di quel pomeriggio.

Eppure, adesso, quel mio amico non esulta più. E non c’entra nulla il fatto che ora giochiamo senza gloria in Lega Pro. Il punto è un altro: e cioè che, nella vita, ci sono momenti dopo i quali nulla può essere più come prima. Quel momento, per lui, è venuto il ventotto ottobre duemiladodici. Il giorno in cui – nessuno può averlo dimenticato – un gol regolarissimo di Bergessio fu prima convalidato senza esitazioni da arbitro e guardalinee, poi parcheggiato nel limbo delle decisioni sospese e infine annullato dal direttore di gara, in quello che fu e resta uno dei più scandalosi latrocini che il calcio italiano ricordi.

Ma lasciamo stare l’ingiustizia sportiva, di cui mille volte abbiamo parlato. Il punto è che da quel giorno, in quell’anima onesta e rossazzurra, qualcosa è cambiato. Prima, per la gioia incredibile di quel pallone sfuggito alla guardia di Buffon. Poi per l’indignazione, ancora carica d’ingenuo sarcasmo, di fronte all’arroganza della panchina avversaria, che s’era lanciata in mischia a placcare l’assistente dell’arbitro in corsa verso il centrocampo. Quindi per l’incredulità, di fronte a quel conciliabolo di arbitro e collaboratori che si prolungava, maturando un’ingiustizia che non credevamo possibile. E infine per il vuoto che sempre l’ingiustizia – che avvenga in uno stadio o in altri campi dell’esistenza – ti lascia dentro, quando ti si è consumata sotto gli occhi senza che tu abbia potuto farci nulla.

Quel gol di Bergessio alla Juve, quel gol annullato, fu l’ultimo per cui io lo abbia visto esultare. Adesso, quando un pallone calciato dai nostri giocatori va a gonfiare la rete avversaria, il mio amico mantiene una apparente, e sia pur fragile, impassibilità. Conoscendolo, ed essendogli amico, io so bene che non può restare indifferente all’unita ebbrezza di una folla che sembra traboccare sul campo. Eppure, quando la palla finisce in rete e dallo stadio passa il treno della felicità, lui socchiude gli occhi, si scruta intorno con diffidenza e lo lascia passare. E credo che aspetti addirittura di leggere sul giornale del giorno dopo il tabellino della partita, per aver conferma che nessun guardalinee sia riuscito a strozzare il grido di quel gol. Per convincersi che sì, in effetti, in quel momento, ci si poteva permettere di esultare. Per convincersene, però, quando il treno è ormai passato.

Ieri sera, a casa mia, ho pensato proprio a lui. Nel momento esatto in cui a Cosenza – con il Catania in svantaggio di un gol, e costretto per di più a giocare in dieci contro undici – Plasmati, e dico Plasmati, s’è coordinato con perfetta armonia di muscoli e nervi per battere al volo un pallone di controbalzo, inquadrando l’unica fessura praticabile tra la difesa e la porta avversaria e sbattendo la sfera in rete con la nonchalance che può possedere soltanto un uomo che non abbia contezza alcuna dei propri limiti. 

Per un attimo il mio corpo, vuoto di pensieri, si è sollevato da solo dalla poltrona dalla quale seguivo la partita con cupa rassegnazione. Ma poi, ricadendo sulla spalliera, vedendo gli avversari assembrati intorno al guardalinee, e quest’ultimo in apparenza convinto a dichiarare nullo il nostro pareggio, e il sorriso dei nostri giocatori che sembrava trasformarsi in una smorfia di delusione, ho pensato a lui, al mio amico che non esulta. E ho rivisto ciò che era successo quindici giorni fa, quando l’arbitro – giustamente, peraltro – aveva annnullato il gol di Calil che, per un attimo, ci aveva illuso d’aver vinto la sfida contro l’Andria.

In quel momento, anzi, avrei voluto proprio essere come lui. Avrei voluto esser capace di non esultare. Di non sfiorare nemmeno quell’attimo di felicità, che fa ancora più male quando ti scappa dalle mani: come succede a un bambino quando gli sfugge il pallone tra le case.

Meno male che era solo una partita di Lega Pro, e che non giocavamo con la Juve. Meno male che l’arbitro ha troncato ogni discussione decidendo che il gol di Plasmati era regolare. Meno male che, almeno per questa volta, avevo ragione io che mi dimenavo in poltrona. Riuscendo a essere felice, per un attimo, per un pareggio a Cosenza che – a conti fatti – cambia ben poco i destini della nostra squadra. I quali non ci prospettano, al momento, nulla di più che la speranza di salvarci in Lega Pro. Ma, per stavolta, va bene così.

Ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.


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