Calcio e bandiere, poesia di un gioco che sapeva incantarci ogni domenica

Dici Catania-Lecce oggi, e vedi solo una partitaccia di serie C. Oppure dici Catania-Lecce guardandoti indietro, e sfogliando ricordi e racconti. E ti viene in mente uno stadio – che allora si chiamava semplicemente Cibali – dal manto magari un po’ spelacchiato. E un Catania fatto di ragazzi che sarebbero entrati nella leggenda. E una sfida contro una difesa imperforabile, la più imperforabile della storia del pallone d’Italia: il suo portiere, che portava il nome improbabilissimo di Emmerich Tarabocchia, era imbattuto da un’infinità di partite. E lo sarebbe rimasto anche quel pomeriggio, allungando una serie destinata ad arrivare all’impossibile record di venti gare consecutiveRecord che ancor oggi non trova riscontro nei nostri campionati.

Era serie C anche quella. E allora? Era una serie C fatta di passione, di uomini che – per averli visti giocare o per averne sentito raccontare le imprese – sono ancora perfettamente presenti nei nostri ricordi. Ciceri e Spagnolo, la coppia del gol con cui – recitava allora uno striscione – si sarebbe tornati «in B in un volo». Zeliko Petrovic, il portiere dalla maglia nera che spaventava gli attaccanti avversari con la smorfia spiovente dei suoi baffoni. O Adelchi Malaman, l’ala sinistra che perforava le barriere con le sue terrificanti punizioni dal limite. E poi Simonini, Prestanti, Benincasa, Battilani, Poletto, Fraccapani, Biondi, Fatta, Giagnoni… Nomi forse dimenticati dagli albi del calcio che conta, ma rimasti indelebilmente scritti dentro la vita sportiva di molti di noi.

Era serie C, va bene. Ma mi dicono che quel pomeriggio del 1975 – o era forse un altro di quella interminabile corsa a tre che ci vide contenderci la promozione con Lecce e Bari? – Tutto il Calcio minuto per minuto mandò un suo radiocronista, Ezio Luzi, proprio su un campo di serie C, il nostro. A occupare quel casotto sporgente sulla tribuna A che stava al posto di quello che è oggi il settore riservato alla stampa. A quel tempo, chi non era allo stadio doveva aspettare l’inizio della ripresa per conoscere il risultato parziale della partita. E lo si aspettava con febbrile trepidazione, perché le radioline a transistor erano l’unico strumento per tenersi in contatto con quei rettangoli verdi su cui si giocava il più bel gioco del mondo.

Era serie C, ma una serie C leggendaria. E trombette troppo acute, ma dolcissime laceravano piacevolmente il silenzio del primo pomeriggio: l’unico orario in cui si giocasse al calcio, nell’unico giorno – la domenica – consacrato ai riti di questo sport. Se quella serie C non fosse stata ben altra cosa rispetto a quella di oggi, non staremmo adesso a discutere, come facciamo, di quanti e quali di quei giocatori meritino di essere effigiati sulla lunga muraglia del Massimino. Se fosse stata semplice serie C, non la rimpiangeremmo come ora facciamo, davanti al rito vuoto di un calcio che non sa più incantarci.

Chi di noi non è più giovane, può consolarsi almeno raccontando di aver vissuto, attraversato o anche solo sfiorato un calcio che era ancora poesia. A quel calcio – quando più tardi le leggemmo per la prima volta – sembravano ancora potersi adattare le parole dei grandi poeti italiani che hanno avuto l’umiltà di accostarsi al pallone. Come quelle, semplici e profondissime, che Umberto Saba dedicò ai giocatori della sua squadra paesana, la Triestina.

Anch’io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari
soli d’inverno.

Le angoscie
che imbiancano i capelli all’improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V’ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente – ugualmente commosso.

Perché per quel calcio, non ci sono dubbi, valeva la pena commuoversi. È vero: noi che di calcio ci cibiamo lo abbiamo fatto anche in seguito. Ma sempre meno pensando a Saba, e semmai piuttosto a Pirandello: per il timore che gli attori in campo attraversino a un certo punto la quarta parete per venirci a dire che quella cui stiamo assistendo è recita. Teatro, non vita.

Non sappiamo, adesso, che calcio ci toccherà. Non abbiamo neanche più la certezza che l’anno prossimo il nostro Catania continui a giocare questo gioco. Che le nostre bandiere possano essere ancora quelle che da sempre identificano il Calcio Catania, matricola 11700. Le stesse che sventolavamo all’Olimpico di Roma, in quarantamila, in quel giugno di trentatré anni fa. Le stesse del Catania di Ciceri e Spagnolo. Le stesse che ci hanno accompagnato sui campetti di ogni categoria, fosse la prestigiosa serie A o l’infima Eccellenza.

Davvero, il problema non è la serie C. Il problema è ciò che è diventato il calcio: il modo in cui esso ci ha traditi, dopo essersi portato via un pezzo di noi. Che non era sicuramente il peggiore. 

Ah, Catania-Lecce, ieri sera, è finita con un insipido zero a zero. Giusto per la cronaca.

Ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.


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