La fiaba di Cenerentolo e la scienza del vento Racconti di calcio dallo stadio del Catanzaro

C’era una volta un giocatore di nome Palanca. Giocava a Catanzaro, tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Di statura era piccolo, meno di un metro e settanta. Ma aveva due baffoni più grandi di lui, che gli davano il sorriso di chi la sa più lunga di te. Palanca era famoso per una qualità che solo lui, tra gli attaccanti italiani, possedeva: faceva spesso gol direttamente da calcio d’angolo. Nessuno sapeva spiegarsi il segreto di questo speciale talento. Eppure lui, e solo lui, riusciva con disarmante facilità a far entrare in rete il pallone da una posizione dalla quale, del cosiddetto specchio della porta, il calciatore vede al massimo un frammento. E da cui è necessario imprimere al pallone traiettorie strampalate e divergenti, per eludere la guardia del portiere e del difensore piazzato sul palo.

Al tempo, si era soliti spiegare la non comune abilità di Palanca con un’altra caratteristica che lo rendeva unico: e cioè le
minuscole dimensioni del suo piede che, si diceva, gli conferivano una straordinaria sensibilità di calcio. Palanca calzava infatti il 37. E si dice che gli scarpini glieli dovessero fare su misura, dato che nessuna ditta di articoli sportivi ne produceva, per quella misura, di adatti a calciatori professionisti. Sta di fatto che di quelle traiettorie impossibili, disegnate dal suo piedino da Cenerentolo a partire dalla bandierina, Palanca in carriera ne mise in rete addirittura tredici. E che questo numero, che io sappia, non trova riscontro nella carriera di nessun altro calciatore.

Ieri pomeriggio, guardando il disarmante zero a zero del Catania a Catanzaro, mi è però venuto un dubbio. E cioè che il talento di Palanca non vada spiegato con la fiaba di Cenerentolo. Ma vada attribuito piuttosto al privilegio di aver avuto come campo di casa proprio lo
stadio Ceravolo di Catanzaro. Uno stadio esposto quanto nessun altro alla furia degli elementi, nel quale il vento può tranquillamente permettersi di spostare il pallone da terra mentre si batte una punizione, di trasformare il rinvio di un portiere in un rocambolesco tiro verso la propria porta, di annullare la fondamentale distinzione tra un pallone da calcio, quello di cuoio usato dai professionisti, e quell’oggetto di forma ugualmente sferica, ma dalla condotta capricciosa e imprevedibile, che porta il nome di Super Tele.

Ho capito ieri che, dietro il talento di Palanca, probabilmente c’era il vento. Che gli ha soffiato nelle orecchie durante interminabili allenamenti. Che ha avuto il tempo, nelle sette stagioni da lui trascorse a Catanzaro, di rivelargli tutti i suoi segreti. E che è stato complice delle sue traiettorie impossibili. Insieme a un’altra caratteristica tipica del campo di Catanzaro: la sua
larghezza inferiore alla norma (circa tre metri in meno, per esempio, dello stadio di Catania).

Non sono sicuro di esser contento di questa scoperta. Che conferisce a un calciatore leggendario i tratti non troppo poetici di un
ingegnere dell’Aeronautica esperto in rilevazioni anemometriche. Di certo, mi dispiace essermi accorto che un altro pezzo di poesia del calcio non c’è più: si tratta di un pino, un pino marittimo. Era piantato immediatamente fuori dallo stadio di Catanzaro, precisamente dietro una delle curve. Ma la sua chioma si protendeva verso il campo, mischiandosi agli striscioni dei tifosi. Adesso, quel pino è stato tagliato. Migliorando magari la visibilità della partita per gli spettatori della curva. Ma sicuramente rendendo molto più anonimo quel pezzo di stadio cui aveva a lungo regalato la sua ombra.

Per il resto, davvero, c’è poco da dire sulla partita di ieri. Ennesima tappa di una stagione rossazzurra sempre più povera di passione e di poesia.

Ceterum censeo Pulvirentem esse pellendum.


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