Caso Ciancio, i motivi del ricorso della procura Pugno duro sulla giudice: «Evidenti suoi limiti»

«Un patrimonio conoscitivo limitato» con valutazioni «incomplete» e ricostruzioni «parziali», che fanno rima con la legge applicata nel «modo sbagliato». Sono questi i dati salienti delle 28 pagine con le quali la procura di Catania ha deciso di impugnare il proscioglimento di Mario Ciancio Sanfilippo. Sull’imprenditore, ex monopolista dell’informazione con il quotidiano La Sicilia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, l’ultima parola spetterà alla corte di Cassazione. I giudici ermellini di Roma saranno chiamati a pronunciarsi sulla sentenza di Gaetana Bernabò Distefano, la giudice per le indagini preliminari finita al centro dell’attenzione mediatica e politica per aver basato la sua scelta sull’inesistenza del reato che viene contestato a Ciancio. Una tesi mal digerita a distanza di 24 ore anche da Nunzio Sarpietro, presidente dei giudici etnei che ha formalmente preso le distanze, a nome dell’intero ufficio, dalla collega

Agata Santonocito e Antonino Fanara, i due magistrati che hanno firmato il ricorso, scrivono di «una ricostruzione parziale dei fatti». Bernabò Distefano viene criticata in primis per le considerazioni sul concorso esterno a Cosa nostra. Che, secondo i due sostituti procuratori, celerebbero non tanto valutazioni giuridiche ma di natura sociologica e politica. La tesi viene bollata senza mezze misure come «una offensiva illazione». Altre violazioni nel motivare la scelta sarebbero state compiute quando nelle motivazioni del non luogo a procedere il capo d’imputazione viene «definito generico». La gip su questo punto avrebbe «sfruttato un’argomentazione spesso utilizzata dagli avvocati difensori» quando quest’ultimi devono fronteggiare processi con il reato di concorso esterno. 

La «singolare» decisione di Benarbò Distefano, presa in udienza preliminare, per i ricorrenti si sarebbe dovuta in realtà limitare a verificare la possibilità di mandare Ciancio a processo. Considerata l’assenza dei «pieni poteri» della giudice in quella fase. Troppe volte inoltre, secondo la procura, la togata avrebbe criticato le indagini di magistrati e inquirenti. Tra errori rimarcati in sequenza e riscontri mancati. Accuse che gli uffici del primo piano di piazza Verga rimandano alla mittente, tacciata di «essersi limitata» a considerare soltanto le requisitorie dei pm. Poche ore, suddivise in una manciata di udienze, non paragonabili al peso delle accuse di 70 faldoni, che custodiscono migliaia di pagine dell’atto d’accusa contro Ciancio. «Sembra potersi affermare – scrivono nel ricorso – che non abbia prestato alcuna attenzione a tutte le altre fonti di prova in atti».

Tra i vari passaggi della sentenza, presi in esame nel ricorso della procura, c’è anche quello in cui la giudice palesava la possibilità che a Ciancio si potesse forse contestare il reato di associazione mafiosa. «La differenza tra concorrente interno ed esterno non può ricondursi alla diversa importanza del contributo fornito – precisano i magistrati etnei -, l’elemento di discrimine è costituito dalla posizione assunta dal soggetto rispetto al sodalizio». L’editore secondo l’accusa avrebbe potuto quindi fornire un apporto rilevante a Cosa nostra senza esserne direttamente affiliato. 

Il documento della procura si aggiunge a quello presentato dai familiari dell’ispettore Beppe Montana, ucciso dalla mafia. Anche in questo caso si chiede l’annullamento con un nuovo rinvio. I motivi in diversi casi sono comuni a quelli dell’accusa, come quando si citano le «mere valutazioni di merito, mai adeguatamente motivate».


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